Il lungo viaggio di Giorgio e Adriano
Roma, 30 maggio – La magia è nascosta o manifesta. Ti avvolge o si insinua a tratti. La magia del teatro. Lo svolgersi che ti interpreta, ti racconta, ti porta fuori da te, ti spiega anche come eri e sei. Il teatro di Giorgio Albertazzi. È il racconto che spacca in due, anche, fra il detto e il non detto, fra quanto appare e ciò che è tutt’altra cosa. Anche quello che lui citava come “Silenzio udibile”.
È l’eleganza del drappo, dell’arredo, della storia anche opulenta delle Signorie, fino all’asciuttezza del futuro in orbita con lo sguardo fra le stelle.
Una laurea in architettura, la sua, per dare base concreta e certa al sogno e all’allucinazione della forma e all’alchimia del colore. Il Rinascimento, che unì tutte le scienze del tempo e le arti, offre ancora una chiave interpretativa di sintesi a quella sua continua, instancabile ricerca di significati, dove cinema, regia, televisione, appaiono come tessere di un unico mosaico, antico quanto proiettato nel futuribile.
“Quello che conta nel rendere attivo il messaggio è quanto di noi mettiamo nel porgerlo”, diceva.
E in Albertazzi il tantissimo portato avanti, concretamente vissuto nel teatro e nei contesti d’arte che amava tanto, era molto meno numeroso e vasto di quanto di quel mondo restava ancora celato nel suo cuore. Ci sarebbero volute tante vite per portare a compimento i progetti già delineati o comunque oggetto di interesse. E questo accade quasi sempre nella vita dei grandi, in tutti gli ambiti. E che offre, fonte di coinvolgimento e testimonianza, esempio, incitamento e coraggio a chi resta e raccoglie comunque il testimone anche ad anni di distanza.
L’importanza del metodo interpretativo. Le parole del testo sono fondamentali in scena, ma presupposto per poterle esprimere è conoscere il più possibile del loro autore: un filo che seguiva sempre, instancabilmente, come orientamento imprescindibile per non
incorrere nella tentazione del recitare.
“Le parole devono essere anche tue, non solo di chi le ha scritte”, diceva. Altrimenti non c’è vera parte in scena. Il palcoscenico con lui usciva dal contesto teatrale e andava come tappeto volante nel tempo e nello spazio. Magicamente, senza rischiare la decontestualizzazione. Si restava nel problema, nella vicenda, nella necessità del fatto proposto ma contemporaneamente si percorrevano i secoli, le mode, le mille storie, i luoghi significativi del sapere, la civiltà senza confini.
Stando su quel suo tappeto volante i luoghi specifici apparivano piccoli, insufficienti per spiegare il tutto, pur se ricchissimi di quanto li contraddistingue.
Il senso del viaggio può interpretare, forse meglio di altro, l’anelito di superamento del limite che lo ha contraddistinto ed è emblematico quanto ripeteva: che le strade, anche quelle fondamentali, le aveva intraprese per seguire l’invito di qualcuno, prevalentemente di donne.
Ricordava sempre le persone e i luoghi dell’infanzia, in particolare le donne della famiglia d’origine, per definire la formazione iniziale, e un’insegnante, una professoressa con un profumo carico di un’essenza indimenticabile, che arrivava fino ai banchi della classe, e per la quale aveva passato ore ed ore a studiare senza neanche
chiedersi il perché.
Firenze era sua e lui apparteneva a Firenze come in una prima fotografia di identificazione, nell’intonazione, nell’eleganza, nella curiosità, nell’ironia. Ma da lì il pensiero se ne andava per il mondo.
Come la sua stessa vita vissuta fra tanti testi anche in lingua originale.
Delitto e castigo nel 1954 lo portò in tv, come L’ idiota, con anche sua sceneggiatura,1959, e Vita di Dante, 1965. Definito poi a Londra dagli stessi inglesi nel 1964 il migliore Amleto, ricordato per sempre per la sua efficacia nella poetica di Lorca e di Neruda e di gran parte di quella francese. E, indimenticabile, la lettura televisiva di Canti della Divina Commedia.
Nel cinema si affacciò anche con il nascere della Nouvelle Vague. In una prospettiva completamente diversa e straordinariamente innovativa la sua regia televisiva del 1969, con lui interprete, di Jekyll, liberamente tratto dallo “Stano caso del Dottor Jekyll e Mister Hyde” di Stevenson, dove intraprese strade nell’uso della ripresa e degli effetti, sempre filtrati da uno sguardo attentamente filosofico che, purtroppo, poi non ebbe occasione di percorrere in altre occasioni. Anche se il concetto di “doppio” è sempre stato sottolineato nel suo vastissimo percorso shakespeariano.
Per Il mercante di Venezia nel 2014 l’ultima, portentosa, interpretazione del Bardo.
“La fine della bellezza, il momento in cui l’armonia fra il corpo e l’anima si rompe, il momento in cui entrano in conflitto”, le sue parole per riassumere le proprie “Memorie di Adriano”,autrice Marguerite Yourcenar, che dal 1989 hanno accompagnato la sua vita, con circa mille repliche nel mondo, e che per tutti, per Albertazzi stesso, hanno rappresentato ormai una vera e propria identificazione con l’interprete .