Se la censura cauta e preoccupata di non mostrare pericolosi esempi al pubblico del melodramma in quella metà abbastanza movimentata dell’800 non avesse consigliato di eliminare ogni riferimento all’attentato subito dal secentesco re Gustavo III di Svezia, da cui Scribe aveva tratto ispirazione per un libretto da fornire ad Auber, Giuseppe Verdi non si sarebbe risolto a trasferire il triangolo amoroso del suo “Un ballo in maschera” in una Boston coloniale nella quale le leve del comando erano tenute da un governatore e dove si potevano incontrare capi indiani pennuti pronti ad essere assorbiti da una civiltà sconosciuta. Il fatto è che il libretto di Antonio Somma a lungo dovette rinunziare alla veridicità, pur se romanzata, dei fatti storici, ed adattarsi al clima made in USA.
E così il pubblico si era abituato a vederlo rappresentato, ma da qualche decennio a questa parte, e oggi sempre più spesso, si è tornati a proporre sui palcoscenici lirici l’edizione pensata in origine che si conclude con un regicidio, ostacolo insormontabile e causa principale delle difficoltà incontrate da Verdi con Napoli e Venezia. Il “Ballo” è un’opera bellissima che sembra raccogliere e riprodurre perfezionandoli certi stilemi compositivi che appartengono al clima musicale francese, certi echi di Auber e Offenbach, una leggerezza di situazioni sottolineata da pagine bellissime, brillanti destinate per lo più a Oscar, il paggio, qui, portato in scena da Serena Gamberoni, un soprano lirico-leggero, con apprezzabilissime colorature che la fanno giocare con vocalismi spericolati mentre si prepara la tragedia. Lei, frizzante messaggero, è fulcro e elemento di raccordo fra la cupezza della vicenda sulla quale aleggia ineluttabile un’atmosfera dolente che ricorda “Il Trovatore”, oscillando fra il ruolo di spumeggiante e irriverente portavoce reale, anima della festa in maschera, scatenata sulla scena anche in ruote acrobatiche, e il ruolo di causa innocente e involontaria della morte di Gustavo. Applausi per lei nel primo atto in “È scherzo od é follia”.” Applausi che si rincorrono ancora quando intona durante la festa il suo”Oscar lo sa/ ma non dirà” leggero e gioioso come una coppa di bollicine.
Le pagine scritte per Oscar sono un contraltare perfetto all’atmosfera cupa e a quell’aria di tragedia che incombe per l’amore del re Gustavo, (come ora è tornato a chiamarsi Riccardo), per Amelia, un sentimento mantenuto sempre nei limiti della rinunzia per onorare l’amicizia del re verso il suo capitano Anckarström (Renato), marito dell’amata e perché lei non manchi al dovere di fedeltà.
Sulla scena del lirico romano, Gustavo è sostenuto brillantemente da Francesco Meli, un tenore che ha maturato le già apprezzate potenzialità riuscendo a conciliare i registri intensamente drammatici del personaggio con quelle mezze voci e quelle memorie della sua prima formazione belcantistica. La resa è tutta in quella dizione perfetta, nel timbro vellutato e luminoso, ma anche negli éclat più vigorosi cogliendo così in pieno tutte le tinte vocali e le sfumature di un personaggio non facile nella galleria dei tenori verdiani.
L’altro protagonista della serata è Anckarström (Renato), cui dà vita Simone Piazzola, impegnandosi a mostrarne un certo brutale manicheismo da uomo d’armi, incapace di sapere guardare oltre le evidenze che gli fanno temere di essere doppiamente tradito dalla moglie e dal suo re, un uomo tutto d’un pezzo, ruvido e tuttavia capace di arrendersi al dolore con accenti di sincerità che si esprimono nei morbidi suoni di una delle più belle romanze per baritono “Eri tu che macchiavi”, giustamente sottolineata da lunghi applausi.
Nel difficile ruolo di Amelia, moglie e madre, che obbedendo alle leggi del cuore ama il re Gustavo, troviamo il soprano lirico-drammatico Hui He, voce consistente e dal colore vagamente brunito, ben timbrata, apprezzata protagonista dello star-system che è stata omaggiata con l’International Opera Award (l’Oscar della lirica), mentre nel 2000 era stata vincitrice del Primo Premio al concorso Placido Domingo di Los Angeles. Una menzione d’onore merita, inoltre, la ben collaudata Ulrica di Dolora Zajick dai bei toni gravi come si conviene al personaggio.
Questo cast di tutto rispetto è coordinato dall’ottima direzione d’orchestra di Jesus Lopez Cobos, attento alle esigenze delle voci, e a conciliare il suono orchestrale con il palco.
Il nuovo allestimento, nato in coproduzione con il Teatro dell’Opera di Malmö, è firmato da Leo Muscato, regista di vaglio, premiato da un International Opera Awards “Opera Star” per la sua attività. Qui, la sua mano è stata abbastanza leggera (a volte anche un po’ frettolosa come quando fa entrare in scena il figlioletto di Amelia e subito dopo il libretto impone alla povera donna di implorare il marito di farle rivedere un’ultima volta la propria creatura), forse anche condizionata dalle scene semplicissime, di altezza ridotta, più adatte ad un palcoscenico come quello svedese che al nostro lirico, firmate da Federica Parolini, che omaggiano il mondo del cinema quando lo studio di re Gustavo viene letteralmente tappezzato da ritratti. (“La migliore offerta”di Giuseppe Tornatore con il premio Oscar Geoffrey Rush e prima ancora, “Gruppo di famiglia in un interno”, la raffinata pellicola di Luchino Visconti del 1974). Ma ancor più è stato apprezzato l’”orrido campo” dove si incontrano Gustavo e Amelia spinti dalla profezia di Ulrica, completamente vestito di luci firmate da Alessandro Verazzi, luci come stati d’animo.
Un tocco di eleganza non poteva mancare e non è mancato nei costumi di Silvia Aymonino.