Lo spazio è offerto alla consapevolezza dello spettatore, cosicché niente può essere più vario: rifugio post-atomico, ventre materno, faro nel nulla. Qui, nella scatola del palco grigiastra, una stanza-limbo, con una luce livida che piomba a picco da un lucernario sporco e due finestrelle simmetriche che si aprono sul Mare e sulla Terra, il vecchio Hamm immobilizzato su una sedia a rotelle, cieco, ha le pupille bianche riparate dai classici occhialini rotondi. Con lui, freneticamente in movimento, il servo Clov e i genitori, Nagg e Nell, anzi parte di essi, conficcati in un loculo che si può estrarre come in una sala mortuaria, che somiglia ad una stia di polli, corpi-reperti anatomici, senza gambe ma vivi per le rare memorie che riescono a cucire insieme come quella gita in tandem, o per il desiderio primario e infantile di un confettino dolce. Così si presenta allo spettatore del Teatro Eliseo, nella sua elegante apertura di stagione, “Finale di Partita”, capolavoro del teatro dell’assurdo di Samuel Beckett, uno dei più significativi testi espressi nella seconda metà del ‘900, che mostra l’amara insensatezza del vivere, i fallimenti, la precarietà dell’esistenza.
L’atto unico dello scrittore irlandese, curato nella regia da Andrea Baracco ha per protagonisti Glauco Mauri e Roberto Sturno, nelle scene funzionali e nei costumi di Marta Crisolini Malatesta, con le sottolineature sonore di Giacomo Vezzani. Il testo venne interpretato quando fu messo in scena al Royal Court Theatre di Londra, il quel 3 aprile del 1957, come una risposta agli interrogativi ontologici di sempre ma più accesi in quegli anni ’50 quando la memoria di disastri atomici era ancora palpitante, quando l’umanità abbrutita dagli orrori della II° Guerra Mondiale e dai campi di sterminio rifletteva sulla follia umana che aveva rappresentato se stessa nella natura distrutta, nei cadaveri monchi e in larve che si ostinavano nella loro eterna partita a scacchi con la vita quando non c’è più natura e non esiste più il tempo. Secondo Adorno in questo teatro “il non significar nulla diventa l’unico significato”, ovvero il teatro che nella negatività della propria esistenza illustra la forza della propria essenza vitale. Anche il linguaggio è deprivato di senso, e perciò scarno, i gesti sono assurdi, contraddittori, come quel cane continuamente cercato e subito gettato a terra dal vecchio Hamm, un moto che ricorda quello dei neonati sul passeggino, un cane monco, a tre zampe.
In questo testo, spesso venato di ironia e di comicità macabra, la recitazione misurata di Mauri, nella sua coerente interpretazione esalta l’aspetto grottesco di una vita che nell’immobilità paralitica di Hamm diventa un ossimoro paradossale. Ottima la prova di Roberto Sturno, che costruisce Clov come il naturale completamento di Hamm, con le sue esitazioni, i passetti lucidi, con la sua obbedienza cieca e l’arma sempre impugnata e minacciosa di una valigia pronta per fuggire dal luogo claustrofobico.