Teatro dell’Opera – Bohéme alle Terme di Caracalla

Caleidoscopico Livermore

Roma, 3 agosto – Chi riesce a non cadere nella trappola emozionale dell’ultimo atto di Bohéme di Puccini, a non tirar fuori i fazzoletti, non è un vero uomo. Perché questa musica di Puccini che parla all’anima, che racconta questa morte incongrua in una età di divertimento e di gioia, non può che colpire la sensibilità del pubblico di ogni età.

È quello che è accaduto l’altra sera, complice ancora la Bohème, spettacolo affidato a Davide Livermore, nella calda notte di Caracalla. E lui, con un passato di successo anche come cantante, qui ha indossato molte vesti, di regista, scenografo, costumista e light designer, per raccontare la tormentata storia d’amore di Mimì e Rodolfo, di Marcello e di Musetta e le misere esistenze dei giovani artisti bohème fra le soffitte della Parigi di fine Ottocento.

Il mélo è tratto da ” Scènes de la vie de Bohème” di Henri Murger e Théodore Barrière, da esso Illica e Giacosa trassero il libretto per l’opera di Puccini. È un affresco della realtà di giovani pieni di illusione, di speranze e in cerca di futuro, così simili ai giovani di oggi, dove entra d’improvviso il dramma più disperato: la morte di una coetanea, per tisi, malattia che allora falciava molte giovani vite.

Tutto questo è rappresentato fin dalla prima scena, un’ampia soffitta, l’atelier del pittore Marcello, piena di tele e stratificati cumuli di cianfrusaglie, dove convivono quattro amici votati all’arte, Colline, il filosofo, Marcello, il pittore appunto ridotto a illustrare insegne d’osterie, Schaunard, il musicista e Rodolfo, il poeta.

Proprio qui Rodolfo incontra per la prima volta Mimì, che in realtà si chiama Lucia, e si mantiene facendo fiori di seta in una cameretta che guarda sui tetti e s’illumina per uno spicchio di cielo. Lei chiede un po’ di fuoco per il lume, poi con la spontaneità della giovinezza, già innamorati, insieme si recano al Café Momus a festeggiare la vigilia di Natale.

Il resto della trama è fin troppo noto per darne conto.

Per raccontare questo mondo, il palcoscenico di Livermore diventa impressionista, si arreda di 8 tavole di dimensioni diverse, schermi per la proiezione di quadri scelti con attenzione e amore per i colori e per la loro capacità di raccontare l’epoca e motivarla. Così Cezanne, Renoir, Monet, fra gli altri, e la Notte Stellata di Van Gogh con gli astri che come pugni trafiggono il cielo, sono presenti nella fredda soffitta del pittore Marcello, mentre intorno è la notte del vetusto sito archeologico profumata di mentuccia selvatica a combattere l’afa e a far da cornice.

L’uso sapiente delle proiezioni e di macchine sceniche permette un effetto speciale nel terzo atto, quello che si svolge presso la Barrière d’Enfer che suscita gli “oh!” di meraviglia del pubblico presente: due enormi bocche lanciano nell’aria fino a ricoprire, complice un venticello assai collaborativo, con spruzzi di finta neve il pubblico che ricopriva tutti gli ordini di posti (segno della vitalità e dell’amore per quest’opera, la prima al mondo per numero di rappresentazioni), e posarsi sui resti degli antichi contrafforti. Suggestivo davvero e strappa applausi.

Così come la scena del Café Momus con il palcoscenico inondato di folla festante e i bambini che sfuggono al controllo attratti dai giocattoli di Parpignol, i funamboli e i mangiatori di fuoco.

Questa messa in scena, nata a Philadelphia nel 2012, poi acquistata da Valencia, proposta in un nuovo allestimento proprio in coproduzione con il Palau de les Arts Reina Sofía, era già in cartellone l’estate passata, ma uno sciopero imprevisto aveva fatto sì che l’opera debuttasse senza orchestra, con i cantanti accompagnati solo da un pianoforte.

Oggi dispiega la sua valenza con la direzione d’orchestra di Paolo Arrivabeni, direttore musicale dell’Opéra Royal de Wallonie di Liegi dal 2008, specialista del repertorio operistico, richiesto dai maggiori templi della lirica. Qui, il maestro è apparso particolarmente impegnato a cogliere e metter in bella evidenza raffinati passaggi orchestrali che sono profusi nel capolavoro di Puccini, così come quei lievi tratti che collegano quest’opera al repertorio francese di un Bizet, di un Massenet, di un Gounod.

Il lavoro e l’impegno hanno operato nel senso di un armonioso equilibrio fra golfo mistico e palcoscenico, a favore certamente di una migliore resa della compagnia di canto. Che ha i suoi punti di forza, se proprio si vogliono fare delle classifiche, soprattutto nelle voci femminili, anche se il cast è abbastanza omogeneo. Cristina Pasaroiu, rumena, vincitrice di ogni concorso al quale ha partecipato, è stata chiamata a sostenere il ruolo di Mimì nel secondo cast, dimostrando una sensibilità interpretativa che rendeva plausibile il ruolo della gaia fioraia, insidiata dalla tisi; la sua voce è chiara e morbida come si conviene ad una ragazza ventenne. Una conferma è stata l’esibizione di Rosa Feola, Musetta. Artista assai interessante fra quelle delle ultime generazioni, affinata da Renata Scotto nelle master class dell’Accademia di Santa Cecilia, Rosa Feola ha ormai intrapreso con successo una carriera internazionale. La sua Musetta ha giovinezza, vigore ed energia, non abbonda in mossette capricciose, ed è seducente più che seduttiva, ma è capace di slanci di generosità con i quali invoca la grazia alla Madonna per la povera Mimì. I giovani artisti Bohéme, capeggiati dal poeta Rodolfo, Matteo Lippi, si impegnano a dar prova d’un momento storico profondamente connesso all’età della spensieratezza, del gioco, dello scherzo e del facile sorriso nella Parigi che regala sogni di gloria. La voce di Matteo Lippi, intonata e precisa, sicura e limpida nelle emissioni più acute e dal fraseggio elegante, riesce a raggiungere l’ambita meta della commozione del pubblico, già fin dalle prime note della romanza più celebre “Che gelida manina”. Lippi, genovese poco più che trentenne, che studia con Mirella Freni, ha ricoperto il ruolo di Rodolfo praticamente un po’ ovunque in Italia, appropriandosene come di una seconda pelle. Anche il Marcello del baritono coreano Julian Kim obbedisce con decoro alla logica di un secondo cast, dopo essersi segnalato nel ruolo di Figaro, che ha portato in giro ovunque. Ben delineato lo Schaunard di Alessio Arduini  e riflessivo e in linea con il personaggio il Colline di Carlo Cigni. Come sempre, alta la prova del Coro educato da Roberto Gabbiani e quello di Voci bianche di Josè Maria Sciutto.

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