Nella Cavea del Parco della Musica surriscaldata da una delle più afose serate dell’estate romana le note azzurre di Stefano Bollani suonano come un piacevole refrigerio.
L’affollato concerto viene ad aprire la breve stagione estiva che si chiama “Luglio Suona Bene”, pensata dall’Accademia Nazionale di Santa Cecilia in collaborazione con la Fondazione Musica per Roma. La smagliante Orchestra ceciliana era affidata alle cure del giovane direttore estone Kristian Järvi, che si è ritagliato uno spazio internazionale proprio in virtù del repertorio adottato, spesso border line e sempre aperto alle innovazioni. Scelta che è possibile apprezzare in questo programma che si apre con “Morphic Waves” del giovane compositore olandese Joel Roukens, una commissione della Nederlands Philharmonic Orchestra. È un brano, definito dallo stesso compositore eclettico, che si muove nell’incipit con allure vagamente ondivago con stringhe sonore che si ripetono come nel minimalismo di matrice americana, si apre quindi alle contaminazioni delle atmosfere musicali di Michael Gordon e di Steve Reich, per poi arrendersi alle suggestioni di Sibelius, che verso il finale si risolvono in un eterea conclusione.
Il punto focale del concerto era costituito dalla presenza di Stefano Bollani, un artista dalla grandissima empatia che sa scatenare entusiasmo da stadio e richiama un pubblico nuovo.
Spazio allora al “Concerto Azzurro”, un brano per la prima volta presentato nel calendario dell’Accademia, il cui colore ricorda non solo il cielo e il mare, ma è quello tradizionalmente attribuito al quinto chakra, quello all’altezza della gola, ovvero il chakra dell’espressione, della creatività e della comunicazione.
Padrini del “Concerto Azzurro”, lo stesso Kristian Järvi, che ha parenti illustri nello scenario musicale mondiale, essendo figlio del Maestro Neeme, e fratello di Paavo, anch’egli direttore d’orchestra e Paolo Silvestri che ha contribuito alla strumentazione. Fin dalle prime note è una full immersion in una tavolozza variopinta dove il jazz si contamina con il swing, il rock strizza l’occhio al Sudamerica fra le ombre vagamente malinconiche di una bossanova. Quel che è certo è che siamo a Broadway, quella dei tempi d’oro del musical, richiamata dalla inesausta energia, dai virtuosismi di Bollani e quel che meraviglia è la capacità del solista di vagare oltre i confini della partitura coinvolgendo nel gioco delle improvvisazioni più scatenate un’intera orchestra sinfonica. Il viaggio assieme a Bollani continua tra le note del primo cantore classico della cultura musicale statunitense, George Gershwin, colui che mescolando in un calderone i tracciati sonori degli amatissimi compositori della vecchia Europa (Ravel, Debussy e Schönberg), le suggestioni del ricco folklore con la ritmica vivacissima e travolgente, che erano il linguaggio originario dei neri giunti come schiavi e ormai affrancati, quel mondo di suoni che già preludevano ai trionfi di celluloide di Hollywood, la Mecca della ancor giovane arte, che ingoiava insaziabilmente colonne sonore, e il musical targato Broadway, riusciva con un miracolo di sincretismo a creare un sinfonismo americano, pronto a colonizzare i più austeri luoghi deputati alla musica classica.
Così prende vita “Rhapsody in blue”, la sigla di Manhattan da quando Woody Allen l’adottò per il film cult che del celebre quartiere di New York portava il nome. E’ il trionfo del jazz, il suo sdoganamento, ed è anche, oggi lo si può affermare perentoriamente, la pagina più nota di tutta la letteratura americana fin dalla sua prima esecuzione all’ Aeolian Hall, il 1 febbraio del 1924, con Paul Whiteman sul podio e lo stesso Gershwin, pronto a sprizzar faville virtuosistiche dal pianoforte. Ed è questo che Stefano Bollani fa rivivere, una bomba energetica, la stessa che si può ascoltare in una rara registrazione dello stesso Gershwin, che deflagra dopo quell’incipit affidato al clarinetto e il glissando che si inerpicano veloci e sempre più su come una saetta e che sembrano illuminare nel passare la folla dei meravigliosi grattacieli di Manhattan.
Ormai vinto dall’entusiasmo, il pubblico si scatena sulle note del musical ‘Un americano a Parigi’, alla celebrità e rinomanza del brano affidato al linguaggio coreutico dinamico e possente di Gene Kelly, che nella celebre versione cinematografica balla giocando con la pioggia e le pozzanghere. A queste note libere e travolgenti l’incarico di diffondere le malie della Ville Lumière agli occhi incantanti e un po’ ingenui dell’americano medio e poi degli spettatori del mondo intero.