Roma, 15 ottobre – Uscire fuori dai classici a volte può essere un modo per rinvigorirli e con un nuovo appetizing riproporli al pubblico. Non è operazione facile, tuttavia. Comporta dei rischi, cui non sempre è facile sfuggire, malgrado la provata bravura di un attore, un allestimento ricco di coerenze artistiche, o, come in questo testo che inaugura la stagione del Quirino, la capacità di giocare con le metafore che slittamenti temporali rendono inevitabili.
Nel caso de “Il Bugiardo”, capolavoro di Carlo Goldoni, è stato rispettato innanzitutto il sistema di attese che si era formalizzato in chi conosce il valore del regista italo-argentino Alfredo Arias, illustre e creativo lettore della pagina drammaturgica, specie della scena più leggera, e di Geppy Gleijeses, uno dei nostri attori più apprezzati quanto a raffinata interpretazione, che riesce a rendere universale la musicale parlata napoletana. Qui, con una metamorfosi degna di ogni riguardo, Gleijeses si scrolla di dosso qualsivoglia concrezioni di anni (non molti, per verità) e salta e balla e si muove con il dinamismo e la leggerezza di un mimo ballerino. Arias, era già noto al pubblico italiano per almeno due spettacoli meravigliosi, “Circo Equestre Sgueglia” e, prima, il musical trasgressivo “Concha Bonita”. Inevitabile, dunque, attendersi un allestimento fuori dai canoni, che desse ragione di quella trama farcita di imbrogli, finzioni, equivoci che sembrano il tessuto ideale sul quale far prosperare il giovane e bugiardo Lelio.
Scritto da Goldoni sulle orme della “Verdad sospechosa” di Juan Ruiz Alarcón, ode “Le menteur” di Corneille, “Il Bugiardo”, che fu rappresentato per la prima volta a Mantova nel 1750, potrebbe configurarsi come un romanzo di formazione, tendente ad educare ai corretti comportamenti, ma la velocità dei dialoghi, la loro semplicità, la presenza massiccia delle maschere della Commedia dell’Arte, qui tuttavia riportate alla condizione principale di tipi, senza gli scadimenti nella volgarità che si lamentavano all’epoca e che aveva dato vita alla celebre querelle, di cui Goldoni fu uno strenuo rappresentante, ne fanno un momento teatrale godibilissimo.
Lo spettacolo racconta di Lelio, spedito dal padre Pantalone a Napoli presso il proprio fratello ad uscir fuori da una scapestrata fanciullezza, ma qui, sarà il sole, sarà l’aria buona, la libertà, insomma il giovinetto si irrobustisce di anni e di fantasia e sforna “spiritose invenzioni” a getto continuo fino a fare della menzogna e delle sue infinite modulazioni una vera arte.
Tornato a Venezia dopo venti anni, assieme al servo Arlecchino, Lelio ha subito modo di conoscere le figlie del Dottor Balanzoni, Rosaura e Beatrice, che, in assenza del padre, si godono sul terrazzino di casa la serenata di un ammiratore sconosciuto. L’autore è il timido Florindo, allievo e coinquilino del Dottore, innamorato perso di Rosaura. cui non osa svelare i propri sentimenti. Ghiotta occasione per Il Bugiardo che riconosce la paternità del canto senza svelare a quale delle due sia destinato, un mezzo per lasciare aperta una possibilità. Questa sarà la prima di una di quelle “Spiritose Invenzioni” sulle quali si costruisce l’intricata trama. Perché con l’arrivo di Pantalone lo scapestrato, informato che dovrà sposare una fanciulla scelta per lui, ne inventa tante e tante altre di frottole e modella con la fantasia persino una moglie incinta lasciata a Napoli che, fa vagheggiare al papà un bel nipotino. Il castello di menzogne continua a lievitare e inevitabilmente costruisce dei viluppi inestricabili che finiscono con il danneggiare lo stesso inesausto creatore. Così, quando Lelio si accorge di amare Rosaura sarà troppo tardi perché pasticciando la verità ha regalato a Florindo quel coraggio che gli difettava per confessare i propri sentimenti alla bella Rosaura.
In questo allestimento del “Bugiardo” si avverte l’accurato lavoro di scavo, condotto con la pazienza e l’arte di un miniaturista fino a penetrare nelle profondità dell’ordito del testo, che dà luogo ad una metamorfosi fra attore/uomo/personaggio dove l’attore dalla realtà della propria epoca, vestito come si conviene all’oggi, si confronta con il testo nell’imminenza della sua prima metamorfosi che lo riconcilia con il proprio se stesso reale, quando con tutta la compagnia si confronta con il quotidiano, in quello che doveva essere l’intervallo fra gli atti (Lo spettacolo dura 100 minuti in tutto senza interruzioni). Quest’uomo-teatrante diventa infine personaggio e di esso veste gli abiti alla moda settecentesca in questo testo che assieme all’ossimoro finzione/realtà propone un’esperienza di meta-teatro. Come non sottolineare la qualità della traduzione per le scene e l’attento dosaggio del dialetto veneziano, di quello napoletano e della lingua.
Gli slittamenti temporali con anacronismi, la scelta di brani musicali ad hoc tutto contribuisce a ringiovanire l’opera goldoniana. Che conta su presenze attorali di qualità. Come, oltre al protagonista, l’ Arlecchino/Brighella, indossati da Lorenzo Gleijeses con cambi di registro perfetti, che sa essere istrionico e clownesco quanto si conviene. Pantalone ha la gravità di Andrea Giordana, bella e ironica la Rosaura di Marianella Bargilli. Ottimo il resto dell’ affiatata compagnia da Mauro Gioia, Ottavio, il pretendente di Beatrice, alla stessa Beatrice, Valeria Contadino, al comico dottor Balanzoni di Luciano D’Amico, al delizioso Florindo di Luchino Giordana, figlio di Andrea. La scena di Chloe Obolensky (che ha curato anche i costumi: i più belli naturalmente sono quelli destinati a Rosaura/Marianella), regista nota a livello internazionale come storica collaboratrice di Peter Brook), consiste in due quinte di legno scuro che incorniciano centralmente uno sfondo con un’immagine di una oleografica Venezia col suo Canal Grande, dove gli attori portano a termine con aerea levità una davvero bella e dilettevole rappresentazione.