Lo yankee vagabondo che gode e traffica sprezzando i rischi è tornato ad affondare l’ancora nello spettacolare palcoscenico di Caracalla, sede estiva della stagione del Teatro dell’Opera di Roma, ancora è venuto con tutta l’arroganza del conquistatore a popolare del suo fantasma l’estate romana, in cerca di quella vita irrinunciabile che gli è stata concessa per sempre da Giacomo Puccini. Ancora la tenera e poetica farfalla chiusa in un bozzolo fatto di sogni infantili e di speranze, la quindicenne Madame Butterfly, ha fatto ondeggiare il suo passettino delicato, suscitando amore e commozione. Perché non c’è scampo per il pubblico, non può esserci. Se è venuto ad assistere ad un’opera del compositore di Lucca, deve mettere in programma che la commozione è sempre il convitato muto. Un’opera si alimenta dell’eternità dell’arte, e dove meglio di un sito archeologico come Caracalla, e dell’amore del pubblico. Se questi due elementi essenziali sono soddisfatti, si può giocare con le interpretazioni, i sottotesti sviscerati, gli aggiornamenti, le scelte registiche e quant’altro. Non diversamente in questa edizione, firmata da Alex Ollé, uno di quei maghi (sette direttori artistici )che fanno parte de La Fura dels Baus, compagnia catalana che attinge a Barcellona la sua più pura vena creativa. Questa regia curatissima aveva già raccolto consensi nella passata stagione estiva. Fra gli altri meriti, Ollé, seguendo la cifra distintiva della sua compagnia, ha quello di avere saputo eliminare ogni concrezione oleografica e stereotipata e di aver saputo trasferire le atmosfere intimiste e delicate dell’opera in uno spazio davvero fuori del comune come quello del sito. Ne risulta una Butterfly moderna, intelligente, piena di carica emotiva. Anche la sua idea di Pinkerton risulta al di fuori delle abituali rappresentazioni, ma le innovazioni adottate sono perfettamente concordanti con un accettabile rinnovamento e con una fantasiosa rilettura e modernizzazione, e tuttavia esprimono quanto Puccini ha voluto indicare, forte del libretto di Illica e Giacosa. Il marinaio americano di una donna per porto, maschilista e arrogante, qui non solo olezza di pedofilia, non solo irride i valori del sentimento di una adolescente con la testa colma di sogni, ma diventa uno di quegli speculatori e affaristi che vengono a cercare profitti dai fatti di guerra in un Giappone battuto militarmente e pronto a diventare territorio di colonizzazione economica, diventando egli stesso un “palazzinaro”, boss di un’impresa di costruzioni in questa terra agli albori del capitalismo. Un Giappone, peraltro, anacronistico, con i riti matrimoniali che hanno per protagonista una sposa che si può comprare a tempo, ma che arriva a pronunziare il suo sì vestita del senso atavico per l’onore e con il corredo di un pugnale, unico mezzo concessole per esercitare la propria volontà. Un Giappone in linea con la condizione di paese colonizzato da zio Sam e dalla potenza degli US dolls , due miti che sono una bandiera più prestigiosa e rispettata di quella a stelle e strisce per rappresentare l’uomo medio americano. Con l’ausilio delle scene di Alfons Flores, viene sfruttato in modo intelligente il sito archeologico di Caracalla, rivestendo di luce le maestose strutture murarie, specie i due contrafforti delle rovine opportunamente illuminati, che grazie alle ottime videoproiezioni di Franc Aleu, sono stati trasformati in anonimi grattacieli, squallide costruzioni popolari in cemento della seconda metà del XX secolo. Nel cantiere polveroso di cemento circolano lavoratori inzaccherati su passerelle improvvisate e precarie, mentre una baracca che ha tutta l’aria di essere una costruzione provvisoria necessaria al cantiere ritroviamo a vivere Butterfly, tre anni dopo quel fastoso matrimonio approntato con una cerimonia di lusso con tavole imbandite di finger food, nel parco di un circolo di tennis con leggiadro boschetto di bambù, e camerieri che scivolano silenziosi ed efficienti fra signore in abiti griffati a far da cornice a grossi pescecani della finanza corsi a firmar contratti vantaggiosi. I costumi molto fantasiosi sono di Lluc Castells. Allora, la cerimonia era stata bruscamente scandita dall’arrivo di Bonzo, lo zio della sposa,vestito in tutto come un boss con i suoi scagnozzi al seguito armati di bastoni, un boss dagli occhi a mandorla che si è occidentalizzato nei costumi ma non si è ancora liberato delle armi tribali. In questo dopoguerra di Ollé (rimarcato anche dall’arrivo in scena di Sharpless, console di Nagasaki, in taxi), c’è coerenza anche nella lettura complessiva del personaggio eponimo, anche se si può storcere il naso vedendo Cio Cio San, la dolce musmé, americanizzata da hot pants inguinali e t-shirt con tanto di bandiera americana a sottolineare il tentativo della sposa pro tempore di rendersi accettabile per il ritorno del marito made in USA. Attesa inutilmente infelice perché lui aveva precisato le sue intenzioni già comparendo in scena e confessando la considerazione che nutriva per il contratto di nozze che lo legava a Butterfly, che tornando in patria avrebbe sostituito con una vera sposa WASP (bianca, anglosassone e protestante). In questo allestimento 2016, Cio Cio San è Svetlana Aksenova, la quale scivola con grazia dalle atmosfere emozionali previste dalla luminosità e leggerezza romantica del primo atto, dove l’età fanciulla testimonia i momenti di gioia e di illusione, a quel canto dolente del finale quando la perdita, l’abbandono di ogni speranza diventano rinunzia alla vita. Allora il grido del bimbo che, strappatole bruscamente, la invoca diventa brivido di commozione in tutta l’ampia platea. Certo non si possono ammirare le sfumature destinate da Puccini a sfaccettare il personaggio, la Aksenova,se pure in grado di articolare la voce con la morbidezza e la dolcezza pensate per il suo personaggio, non è riuscita a farle superare gli scogli della vastità del palcoscenico, delle amplificazioni, della sua fisicità ( è una donna alta e una impensabile adolescente nipponica), ma c’è correttezza nel suo canto. Angelo Villari ha indossato in modo convincente il cow boy Pinkerton, uno dei ruoli più odiosi fra quelli scritti da Puccini, cui tuttavia ha regalato pagine di bellezza immortale come la scena della seduzione “Bimba dagli occhi pieni di malia” o il poetico e tormentato “Addio fiorito asil”, quando l’ex marinaio torna con la moglie americana a reclamare il bimbo nato dalla sua unione con Butterfly per portarlo con sé. Villari ha bel colore e bel timbro di voce.
Suzuki è affidata ad Anna Pennisi, mezzosoprano siciliano che sta velocemente scalando la vetta dello star system, ovunque apprezzata per il rigore interpretativo e per l’ottima intonazione. La duttilità del suo canto e la capacità di armonizzarsi con la voce del soprano spiccano nel celebre “Duetto dei fiori”. Ben delineato il console di Nagasaki Sharpless di Stefano Antonucci, severo quando occorre a cercare di moderare con la sua paterna umanità le intemperanze dello yankee. Il sensale Goro si avvale della voce e delle qualità sceniche di Saverio Fiore, mentre il “camorrista” zio Bonzo è stato egregiamente interpretato da Fabrizio Beggi. Una menzione particolare per il coro, educato da Roberto Gabbiani, che il regista catalano nel celebre brano “a bocca chiusa” ha fatto cantare da una sfilata di operai o di migranti appena sbarcati via mare.
Convenzionale e a tratti piatta la direzione d’orchestra di Yves Abel, inadatta semplicemente ad esaltare la scrittura pucciniana.