Madame Butterfly è tornata a rivivere con l’eternità dell’opera d’arte tra le monumentali rovine di Caracalla per la stagione estiva del Teatro dell’Opera.
A darle vita in scena, le aspettative del pubblico e il creativo Alex Ollé della Fura del Bals. Il nome garantisce la ricerca al di dentro del testo e degli eventi narrati, così Ollè si è preso le sue libertà, a cominciare da come ha letto il personaggio di Pinkerton che non solo olezza di pedofilia, ma crede solo nei valori del profitto, e si trasforma da marinaio in speculatore, arrogante e maschilista come permetteva l’epoca, e quel Giappone scisso fra le sue anacronistiche tradizioni, i riti matrimoniali con la sposa che si può comprare a tempo, il senso atavico dell’onore e il corredo di un pugnale, unico mezzo concesso alla giovinetta per esercitare la propria volontà e il profumo di modernità.
Un Giappone in linea con la condizione di paese colonizzato da zio Sam e dalla potenza degli US dolls , due miti che sono una bandiera più prestigiosa e rispettata di quella a stelle e strisce per rappresentare l’uomo medio americano.
Da Alex Ollé non ci si aspettava un’ambientazione oleografica e tradizionale, ma le innovazioni adottate si pongono tuttavia in linea con un accettabile rinnovamento e con una fantasiosa rilettura e modernizzazione.
Con l’ausilio delle scene di Alfons Flores, viene sfruttato in modo intelligente il sito archeologico di Caracalla, rivestendo di luce le maestose strutture murarie, specie i due contrafforti delle rovine opportunamente illuminati, che grazie alle ottime videoproiezioni di Franc Aleu, sono stati trasformati in anonimi grattacieli, squallide costruzioni popolari in cemento della seconda metà del XX secolo. Nel cantiere polveroso di cemento circolano emigranti inzaccherati su passerelle improvvisate e precarie. Pinkerton, in questa terra di conquista economica, agli albori del capitalismo, ha fondato un’impresa di costruzioni e proprio in una baracca di periferia ha lasciato la piccola Butterfly. La stessa quindicenne sposina per la quale aveva approntato una cerimonia di lusso con tavole imbandite di finger food, nel parco di un circolo di tennis con leggiadro boschetto di bambù, e camerieri che scivolano silenziosi ed efficienti fra signore in abiti griffati a far da cornice a grossi pescecani della finanza corsi a firmar contratti vantaggiosi.
I costumi molto fantasiosi sono di Lluc Castells. Questa è l’epoca dell’ambientazione (rimarcata anche dall’arrivo in scena di Sharpless, console di Nagasaki, in taxi), questi i personaggi da catechizzare.
Ma c’è coerenza fra queste scelte espressive e il libretto e la musica di Puccini. Coerenza che ritroviamo anche nella lettura complessiva del personaggio eponimo. Anche se qualcuno può arrivare a storcere il naso vedendo Cio Cio San, la dolce musmé, americanizzata da hot pants inguinali e t-shirt con tanto di bandiera americana a sottolineare il tentativo della sposa pro tempore di rendersi accettabile per il ritorno del marito made in USA. Attesa inutilmente infelice perché lui aveva precisato le sue intenzioni già comparendo in scena e confessando la considerazione che nutriva per il contratto di nozze che lo legava a Butterfly, che tornando in patria avrebbe sostituito con una vera sposa WASP (bianca, anglosassone e protestante).
L’edizione di Butterfly, nata dalla collaborazione con l’Opera Australia/Sidney Opera House è stata sostenuta musicalmente da Yves Abel e si può considerare nella sua totalità uno spettacolo ben riuscito. Perché anche se non sempre ha convinto la scelta dei tempi del direttore, cui peraltro, toccava il compito non facile di rendere in uno spazio immenso e all’aperto con il corredo di un’indispensabile amplificazione un’opera piena di momenti intimistici, risulta ottima la performance del soprano Donata D’Annunzio Lombardi che, senza scadere in tentazioni veriste, utilizza interamente la gamma emozionale prevista dalla luminosità e dalla morbidezza del primo atto dove emergono i momenti di gioia e di illusione e prevale l’età fanciulla, e quel canto dolente del finale quando la passione d’amore diventa consapevolezza della perdita di ogni speranza e della rinunzia alla vita. Padrona del palcoscenico e del ruolo, la bella cantante lo carica delle sua sensibilità rendendo pienamente quella tenerezza ingenua che da sempre suscita commozione nel pubblico.
Angelo Villari ha indossato in modo convincente il cow boy Pinkerton, uno dei ruoli più odiosi fra quelli scritti da Puccini, cui tuttavia ha regalato pagine di bellezza immortale come la scena della seduzione “Bimba dagli occhi pieni di malia” o il poetico e tormentato “Addio fiorito asil”, quando l’ex marinaio torna con la moglie americana a reclamare il bimbo nato dalla sua unione con Butterfly per portarlo con sé. Villari ha bel colore e bel timbro di voce.
Suzuki è affidata ad Anna Pennisi, mezzosoprano siciliano che sta velocemente scalando la vetta dello star system, ovunque apprezzata per il rigore interpretativo e per l’ottima intonazione. La duttilità del suo canto e la capacità di armonizzarsi con la voce del soprano spiccano nel celebre “Duetto dei fiori”.
Ben delineato il console di Nagasaki Sharpless di Stefano Antonucci, severo quando occorre a cercare di moderare con la sua paterna umanità le intemperanze dello yankee.
Il sensale Goro si avvale della voce e delle qualità sceniche di Saverio Fiore, mentre lo zio Bonzo, che il regista ha voluto più simile a un boss o a un camorrista, che si circonda di guardaspalle, che a un severo custode delle tradizioni giapponesi, è stato egregiamente interpretato da Fabrizio Beggi.
Una menzione particolare per il coro, educato da Roberto Gabbiani, che il regista catalano nel celebre brano “ a bocca chiusa” ha vestito con abiti di manovali raccogliticci, forse immigrati e clandestini.