Roma, 23 marzo – Davvero difficile giunti al bivio scegliere la direzione: ma la domanda resta in piedi. Cos’è che ha reso questo Cellini del Teatro dell’Opera di Roma un evento di successo? Gli apporti a formare il bouquet ci sono tutti: una messa in scena visionaria che gioca con tutte le competenze culturali, specificamente pittoriche di Terry Gilliam, aduso ad arredare con la sua fertile immaginazione epoche e personaggi e farne dei tipi indimenticabili. Lui, che ha condiviso la follia dei Monty Pyton, che ha realizzato al cinema universi surreali in movie come “Parnassus – L’uomo che voleva ingannare il diavolo” o “Il barone di Műnchausen” o “L’esercito delle 12 scimmie” portando come cifra distintiva della sua creatività una fantasia sbrigliata e senza recinti. E qui, nel Cellini, una messa in scena a volte addirittura bulimica, bizzarra, onirica, folle che si appropria del carnevale romano per sconvolgere la clessidra e far coesistere il Cinquecento di Benvenuto Cellini, con l’Ottocento di Berlioz, con la nostra epoca. Ci sono i bellissimi costumi di Katrina Lindsay a richiamare le due epoche storiche e un’insegna al neon costantemente accesa che segnala un bar in questo allestimento che è stato ideato da Rae Smith e ripreso de Terry Gilliam e Aaron Marsden. L’ispirazione palese è alle antiche stampe del Piranesi che raccontano una Roma che fu con le sue piazze, i palazzi, gli scorci architettonici di rara bellezza. E c’è una direzione d’orchestra efficace di Roberto Abbado che rende pienamente le pagine più lussureggianti e giustamente famose della partitura, smorzando l’effetto più debole di certi momenti compositivi. E soprattutto, fondamentale in un’opera lirica, ci sono le belle voci. Da molto tempo non si poteva registrare all’Opera di Roma un cast così ben assortito con due protagonisti fuoriclasse che reggono anche drammaturgicamente i personaggi come il Cellini, artista geniale e assassino, di John Osborn e la Teresa di Mariangela Sicilia. Ma anche l’ottimo Fieramosca di Alessandro Luongo, l’estremo e ironico Papa Clemente VII di Marco Spotti, l’Ascanio en travesti di Varduhl Abrahamyan e gli altri, Nicola Ulivieri, che gioca il ruolo di Giacomo Balducci, padre di Teresa, e Francesco, Bernardino e Pompeo indossati rispettivamente da Matteo Falcier Graziano Dallavalle e Andrea Giovannini. Il tutto incastonato in un momento di festa frenetica, carnascialesca che invade il palcoscenico e si riversa in platea coinvolgendo il pubblico con il lancio di coriandoli dorati e con il defilé di maschere e di bambini strillanti di eccitazione e allegria,
Eppure il Benvenuto Cellini, fin dal suo apparire sulla scena teatrale, in quel lontano 10 settembre del 1838, ha suscitato perplessità e implacabili critiche. Al musicista, già protagonista di primo piano nei territori sinfonici, che si apprestava a colonizzare i palcoscenici, si rimproverava un mancato equilibrio compositivo e, mentre si lodava la straordinaria ouverture, che si potrebbe considerare a ragione il trait d’union fra sinfonismo e opera, mentre ci si lasciava coinvolgere dalla lussureggiante fantasmagoria musicale di pagine come quelle destinate al carnevale romano, a chiusura del secondo atto, poi rielaborate nel 1844 e divenute celebri come “ouverture caractéristique”, con il nome appunto di Carnevale Romano, mentre si inneggiava al Berlioz strumentatore d’eccellenza e alla sbalorditiva bravura dei trattamenti corali, (oggi si ammira la sua capacità di saltare a piè pari i tempi e aprirsi a soluzioni timbriche che sono assolutamente novecentesche, degne di uno Stravinsky), si segnavano con punti di demerito la debolezza di certi passaggi, un eccesso di sperimentazione, bizzarrie e discontinuità, tanto da far scrivere ad un critico subito dopo la prima esecuzione :”Uno dei principali caratteri di questa partitura è che gli attori non sanno cosa cantano, i musicisti non sanno che cosa suonano e il pubblico non sa cosa sente”.
Il libretto di Wailly e Barbier è tratto dalla biografia di Cellini in cui Berlioz si riconosceva in quanto artista unico e poco compreso, permettendosi un buon pizzico di autoironia nei confronti sia del Cellini stesso sia del Papa in persona che della burocrazia vaticana, come anche dei vari sicofanti e questuanti che la circondavano.
Lo spettacolo di Roma nasce sinergicamente come coproduzione fra il nostro lirico con English National Opera e De Nationale Opera & Ballet di Amsterdam.