(immagine di pubblico dominio; https://it.wikipedia.org/wiki/File:C%27eravamo_tanto_amati,_film.jpg)
Roma, 25 dicembre 2024 – Su queste colonne, dove è uso celebrare ricorrenze “a cifra tonda” di opere cinematografiche, ricordiamo oggi il mezzo secolo di “C’eravamo tanto amati”, regia di Ettore Scola, uscito nelle sale il 21 dicembre 1974.
Partiamo, nella rievocazione di questa eccelsa pellicola,dal soggetto e dalla sceneggiatura, elementi portanti che stanno aun film come l’apparato scheletrico ai vertebrati. A scriverli furono il formidabile duo Agenore Incrocci e Furio Scarpelli, entrambi classe 1919, a cui si univa l’allora quarantatreenne Scola.
Non c’è bisogno di fare una sinossi della trama, queste poche righe vogliono essere un invito per i lettori più maturi a rivedere un capolavoro del cinema italiano, e soprattutto, a farlo conoscere ai giovani.
Un’opera che, partendo dal neorealismo, attraversa cronologicamente l’epoca d’oro della commedia all’italiana, chiudendola definitivamente.
Quello che è venuto dopo, nessuno se ne abbia a male, è stato altra roba, e pian piano dai film anni ’70 di “chiappa e spada” (definizione del compianto Renzo Montagnani), che comunque una loro originalità la ebbero, si è scesi ancora più in basso alla volgarotta sequenza dei cinepanettoni.
Ritorniamo perciò prontamente a “C’eravamo tanto amati”.
Questo film appare perfetta incarnazione dello spirito della commedia all’italiana che, come la celebre “A tazz’ecafè” della canzone, in coppa teneva ‘o zucchero, ma in fondo era molto amara.
Molte battute formidabili, che l’impulso farebbe sciorinare l’una via l’altra, si accompagnavano a un’acuta critica della società dell’epoca e delle sue contraddizioni.
Nel film di cui parliamo le vicende girano attorno alla trinità di protagonisti maschili, ex compagni nella lotta partigiana, a rappresentare un condensato dei molti vizi e virtù degli italiani.
Su tutti il portantino Antonio, interpretato mirabilmente da Nino Manfredi, portatore oltre che di barelle anche degli ideali della Resistenza, cercando di applicarli nella quotidianità modesta della nuova Italia, che andava purtroppo in tutt’altra direzione.
Poi Stefano Satta Flores, il professor Nicola Palumbo da Nocera Inferiore, la quale – ecco che incontinentemente ci scappa la prima citazione – “è inferiore per aver dato i natali a gente come voi!”, come diceva polemicamente il personaggio ai suoi compaesani.
“L’intellettuale è più avanti, è più sù, è più giù, egli è irraggiungibile, egli è più oltre” era l’utopistica posizione di Palumbo, che alla fine resta solo e scornacchiato, arroccato in un rancorosa posizione da incompreso, senza aver concretizzato nulla per cambiare il mondo.
Non poteva poi essere che Vittorio Gassman a ricoprire il ruolo di Gianni Perego, che divenuto avvocato si farà ingerire e digerire dall’arrivismo e dall’opportunismo, tradendo tutti gli ideali e le amicizie e vendendosi al “sistema”.
La coprotagonista femminile Luciana Zanon, friulana aspirante attrice (“di Trasaghis, vicino Peonis”), a cui prestò il volto e l’anima una bellissima Stefania Sandrelli.
Era lei il vertice di un quadrilatero amoroso, un “ménage a quatre”via via condotto negli anni con i tre protagonisti, per accasarsi alla fine con l’innamoratissimo e affidabile Antonio.
Accanto a loro i personaggi solo apparentemente secondari, che è bello ricordare.
Aldo Fabrizi nel ruolo del “marchese di cazzuola” Romolo Catenacci, ex gerarca divenuto palazzinaro, con consorte interpretata dalla mitica Sora Lella.
Giovanna Ralli, la Elide Catenacci inizialmente sempliciotta (che rifiuta il panino con la porchetta dicendo “No grazie, non posso mangia’ idrocarburi”) ma poi capace di un’evoluzione personale per stare al livello di Gianni il quale invece, dopo averla sposata per opportunismo, cialtronamente la ignora e umilia.
E poi vari cameo, a partire da Vittorio De Sica, a cui il film è dedicato essendo egli scomparso durante la preparazione; Marcello Mastroianni; Federico Fellini; Ugo Gregoretti; Isa Barzizza.
Menzione speciale infine per la trattoria “Dal Re della mezza porzione”.
Una storia toccante, uno spaccato di storia d’Italia in tre decadi, dal secondo dopoguerra agli anni Settanta, che può insegnare più dei manuali scolastici.
Per chiudere ecco una suggestione, che è anche suggerimento aggiuntivo a rivedere un altro vecchio film di dieci anni prima, “Il gaucho” di Dino Risi (1964).
Orbene, in quest’ultima pellicola, ambientata a Buenos Aires, c’è un rapporto di amicizia tra Marco, un cialtrone inconcludente e imbroglione, e Stefano, onesto “perdente di insuccesso”.
Ad interpretare i due personaggi, rispettivamente, Gassman e Manfredi. Alla sceneggiatura partecipò un giovane di belle speranze, irpino di Trevico. Si chiamava Ettore Scola…
Vi invitiamo a prestare attenzione, dopo aver riveduto entrambi i film, a questa particolare affinità, che non può essere casuale.
E quindi, in questi giorni di grandi libagioni festive, buio in sala… e buona visione!