Roma, 24 novembre – Era nell’aria quell’idea di viaggiatore dell’anima che si riveste dei colori più accesi e contrastanti del romanticismo e dà libero sfogo ad un tumulto di passioni dove gli estremi dell’eterna antitesi eros thanatos si saldano in un unicum indissolubile. Circolava libera e senza frontiere l’ammaliante poetica dell’amore totalizzante e impossibile, della tristezza malinconica che si nutre di un tedium vitae nuovo, strettamente connessa con l’idea della colpa, con il soprannaturale incombente e dionisiaco, con un mondo altro dove i tormenti si spalmano come una pelle sulla mitologia di esseri demoniaci, sorti dalle profondità del peccato, e costringono lo spirito sensibile a vagare in cerca di pace per trovare una ragione alla propria esistenza e vincere il dolore di vivere.
Assieme al Manfred di Byron, materia letteraria diventata poema musicale con Ciaikovski, e oggi presente nel calendario dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, altri nobili amanti diventano wanderer, viaggiatori alla ricerca di quel qualcosa che li motivi, inconsapevoli che lo scopo della loro esistenza è proprio nella ricerca, nella quête. Manfred vaga per le Alpi con l’ombra traslucida di Astarte, l’amatissima e perduta sorella, evanescente come la dea della bellezza, di cui porta il nome, a fargli compagnia e ricorre a tutti i mezzi, comprese le scienze occulte per trovare conforto. E durante il vagare incontra la fata delle Alpi, che ha intessuto la sua essenza nei sette colori dell’arcobaleno, fluttuante di pura luce sull’acqua zampillante da una roccia. La presenza della dolce creatura simbolo di bellezza assoluta, crea un’atmosfera pastorale punteggiata da un senso di pace purificata tra i montanari. Per poco, l’animo cerca altrove e non si arresta di fronte al baccanale nel palazzo sotterraneo dello spirito del male, quel diavolo del panorama infernale persiano che risponde al nome di Arimane. Qui, può invocare l’ombra dell’amata Astarte, che quasi mossa da terrena pietà gli predice la pace definitiva della morte.
Su questo canovaccio di sentimenti, Ciaikovskij costruisce la sua Sinfonia, per verità vista la particolareggiata scansione degli episodi ai quali egli dà vita sonora, si potrebbe considerare a rigore un Poema Sinfonico, per come viene elaborato il percorso musicale che racconta il protagonista Manfred con vera ricchezza di materiale tematico e con grande varietà di linguaggio melodico, perfettamente in linea con lo stile creativo del compositore.
L’opera, al suo primo apparire, fu salutata come un capolavoro anche se non mancarono e non mancano tuttora detrattori che ritengono le convulse e febbrile pagine tanto sovraccariche di effetti da dare una connotazione enfatica a tutta la Sinfonia. Discorso lungo che si articola sulle valutazioni di Ciaikovskij musicista e che non interessa davvero fare qui. All’epoca, Pietr aveva scritto a proposito della prima esecuzione alla signora Nadiezda von Meck, sua mecenate:” «Quasi un successo e alla fine anche un’ovazione». Avevano colpito quel tema appassionato e dolente di Manfred che si snoda per tutto il percorso della Sinfonia, a partire dall’inizio, così come il tema di Astarte, soffuso di lirismo, dolce e malinconico ad un tempo, carezzevole, ripreso dai violini.
Nel secondo quadro di questa composizione in quattro quadri, l’occhio è puntato sulla rappresentazione di un mondo fantastico, dove si installa l’ambiente dove vive protagonista la Fata delle Alpi, raccontato da note staccate, arabeschi e da una soave leggerezza e la Fata stessa che naturalmente ha la consistenza luminosa dell’aria. La melodia che la esprime poggia tutta sulle sonorità degli archi.
Nel terzo quadro è il mondo semplice e sereno dei contadini montanari raccontato da una Pastorale.
Nel Finale esplode il Baccanale con le sue atmosfere orrorose sottolineato da un vigore plastico dove esplode intero il virtuosismo orchestrale di Ciaikovskij. Poi ritorna il tema di Astarte quasi a precedere il profondo senso di mestizia che stempera il parossismo infernale mentre Manfred pacificato muore.
Nell’edizione che abbiamo ascoltato, l’impegno delle direzione è stato sostenuto brillantemente da Vasily Petrenko, direttore giovane e perfettamente inserito nello star system mondiale, che ha potuto disporre di un’orchestra ormai a livelli magistrali sotto la guida di Sir Antonio Pappano.
A mostrare la duttilità di Petrenko basta ricordare che il programma proposto si è aperto sulle note eleganti e trascinanti della Symphonie Espagnole di Ếdouard Victoire Antoine Lalo riprodotte da Ray Chen, valente violinista nato a Taiwan e cresciuto nel milieu australiano, vincitore del prestigioso concorso Yehudi Menuhin, per la prima volta nel concerti dell’Accademia, che suona uno Stradivari Joachim del 1715. Un violinista eclettico che ha coniugato le sonorità spagnoleggianti di Lalo con il Capriccio n. 21 di Paganini e un Rondò di Bach, due bis che illustrano l’ampio spettro espressivo sul quale sa giocare.