Roma, 31 ottobre – Quanti padri amorevoli attorno alla creatura di celluloide e di merletto, chiamata Coppelia, nome al femminile del suo creatore, dr. Coppelius, nella convenzione narrativa.
Alla base c’è E.T.A. Hoffman, lui e il suo mondo, romantico e sulfureo ad un tempo con il racconto “Der Sandmann”, (l’uomo della sabbia). Poi, lasciata la pagina e le sue righe di piombo, eccola volteggiare protagonista di quella danza che si incolla alle scarpette rosa e le trascina in un vorticare che è pantomima e astrazione, simbolica e surreale. Ma poi diventa sorriso, allegria, “beffa villereccia”, quando il sulfureo abbandona il pentagramma di Léo Delibes, facendogli germogliare elaborazioni sonore che ricordano gli organetti di Barberia e una voglia di danza che tutto conquista. Eccola quindi traghettare dalla pagina alle scelte cinetiche del suo primo coreografo, Arthur Saint-Léon, in quel 1870 che in Francia segna la fine del Secondo Impero, diventata punto di chiusura di un percorso iniziato con il grande balletto romantico Giselle e appunto concluso con Coppelia, ovvero “La ragazza dagli occhi di smalto”.
Il successo del balletto con il suo soggetto così piacevole e ricco di possibili sfaccettature, favorì negli anni molte coreografie, fino ad impadronirsi di Roland Petit che alchemicamente lo tramuta in garbata ironia e invenzione giocosa.
Quel balletto oggi è sul palcoscenico del teatro dell’Opera di Roma, ripreso dal suo erede artistico Luigi Bonino. Coppelia vive ancora, dunque, con il mito sempiterno delle bambole meccaniche o robotiche, vitalissime suscitatrici di emozioni dall’alto della loro freddezza e immutabilità. Le coppelie hanno a lungo colonizzato palcoscenici, carta stampata e pellicole. Ad es. la stessa bambola, trasmigrata in Olympia, si è insinuata fra i fumi dell’assenzio del poeta Nathaniel nei “Contes di Hoffman” di Offenbach popolando il suo tormentato dormiveglia; altre sono vissute, più o meno terrifiche, come proiezioni di paure inconsce, nelle letterature di genere come la pericolosa e mortale “Mademoiselle d’Île” di Narval. o addirittura la umanizzata Caterina di “Io e Caterina”, dove uno stralunato Alberto Sordi civetta con una robot femmina chiamata a difenderlo dalle necessità casalinghe e divenuta protagonista della sua vita.
Nella coreografia di Roland Petit protagonista è il dr Coppelius, fascinoso dandy della belle époque, (affidato alla classe di Luigi Bonino), polo intermedio di un triangolo d’amore (o di un quadrilatero se vogliamo dare alla bambola lo stesso spessore della deliziosa Swanilda), formato anche da Swanilda, ragazza di cui è follemente e segretamente innamorato, fidanzata dell’ingenuo Franz, concupito con passione dalla ragazza ma distratto dal mistero della bella sconosciuta che con fattezze che gli richiamano la propria innamorata, ma gelida e immota, si mostra dal balcone di casa Coppelius, scossa ogni tanto da un brivido incantatore. Lui non sa che sta ammirando una fanciulla inconsistente che vive nella finzione del mago Coppelius, un’imitazione di quella che può stringere amorevolmente tra le braccia, il sogno irrealizzabile di un ometto decadente avviato verso l’incombente terza età con i suoi favoriti sale e pepe. Ora gli intrecci sono dichiarati e possono avviluppare i personaggi. Ora, Coppelius si può lanciare nel suo ballo travolgente, il passo a due più celebrato dell’intero balletto. Poi, quando si accorge che Franz è penetrato nel suo ambulatorio alchemico, tenta di trasmutare quel simulacro in una creatura piena di vita, facendo bere al giovane una potente pozione letta in uno dei suoi libroni magici e segreti, che dovrebbe rapirgli l’anima. Chissà quale fine avrebbe conosciuto Franz, se Swanilda non si fosse abilmente sostituita alla bambola, indossandone l’elegante vestito spagnolo? E facendo credere al maturo Pigmalione che il sortilegio è riuscito.
Nel rispetto pieno della tradizione, la pittura dei sentimenti, leggeri e frizzanti, nella coreografia di Roland Petit si arrende al repertorio tecnico codificato dal più tradizionale accademismo, illustrato dai salti acrobatici e da passi a due complessi. Un linguaggio che Petit conosce bene ma che rende genialmente moderno, con la sua personale sintassi, che è balletto ma anche ammiccamento divertito alla commedia dell’arte, come anche alla commedia alla Labiche, patinata e brillante, briosa e leggera come una coppa di champagne.
Il successo pieno dello spettacolo è certamente condiviso fra Luigi Bonino, l’erede di Roland Petit, di cui monta in tutto il mondo i balletti, certo straordinario ed ineguagliabile ad evocare la strana figura del mago, alla fine beffato dalla protagonista, la brava Alessia Gay, dolce e ironica, civetta e simpatica , bravissima a vestire i panni rigidi della bambola Coppelia, e coraggiosa a contrastare qualsiasi forza o “potere” possa tenerla lontana dall’amato Franz. La Gay supera le asperità tecniche del ruolo di Swanilda, anche a livello interpretativo e affronta con grazia piroettes e difficili momenti solistici, senza compromettere il sorriso che le illumina il viso, sempre senza sbavature, in linee lunghe e ben tenute, con elegante leggerezza. Nel ruolo di Franz, Alberto Rezza sfoggia momenti di virtuosismo con elevazioni poderose, perfettamente a bell’agio nel costruire l’innamorato ingenuo, capace di lasciarsi irretire da un’immagine finta e di non riconoscere le virtù della propria innamorata. I personaggi si muovono nelle scene pratiche e significative e con i fantasiosi costumi, ambedue di Ezio Frigerio, deliziosamente colorati nelle nuances del rosa, dal cipria ad una smagliante tonalità più prossima al fucsia nei pantaloni dei galanti soldatini venuti a far volteggiare un corpo di ballo che ha già subito l’influenza benefica della eccellente Eleonora Abbagnato, in lotta serrata contro i cliché ballettistici, giunta con il suo tocco di leggerezza francese a spolverarlo dalle concrezioni più trite.
Altro punto di forza la bella esecuzione della partitura brillante di Delibes, affidata all’orchestra del Teatro dell’Opera condotta egregiamente da David Garforth.