“Morte di Danton” è un momento di grande teatro che gioca su fattori di incontrovertibile successo. Una pagina che si apre magicamente su un palcoscenico anzi su una sala teatrale intera, quella del Teatro Argentina, che Mario Martone, il regista, ha voluto non solo coinvolta dagli attori che si muovono scendendo dal palco tra le poltrone, ma dagli spettatori che sono chiamati silenziosamente ad essere personaggio aggiunto che esprime la sua presenza con brusii, registrazioni, echi e rimandi che amplificano gli spazi dello spettacolo, per diventare il popolo parigino testimone vibrante e partecipativo della Rivoluzione francese (ma in ogni rivoluzione il popolo è sempre in prima fila), che ha siglato la storia e determinato destini e futuro per il mondo intero.
Scritto nel 1835, 41 anni dopo la morte del leader dei Cordiglieri, quando ancora l’eco dei fatti di Parigi animava le coscienze, questo dramma storico è concepito dal ventunenne Georg Büchner, autore anche di “Woyzeck” e “Leonce e Lena”, in un periodo tormentato, che lo avrebbe visto in fuga, di notte, in preda al panico, con la paura di poter essere arrestato per la sua attività politica che lo aveva portato ad essere uno dei promotori della rivolta nell’Assia.
Il dramma, negli originali quattro atti, delinea con chiarezza due personalità che, pur nei contrasti ideologici, marcarono la storia dell’epoca, due figure carismatiche: George Jacques Danton, che si era posto a capo del partito dei Cordiglieri e Maximilien Robespierre, leader dei Giacobini.
Sanguigno, massiccio, brutto e segnato nel viso e nel corpo da cornate e altri incidenti, l’avvocato Danton arringava con profitto la folla con la sua voce tonante e con la mimica delle braccia.
L’avvocato Robespierre, l’”Incorruttibile”, era alto, sottile, dalla minacciosa e incisiva eloquenza.
Ambedue animati da una visione politica complessa che li portò su opposte posizioni in quella miriade di fazioni che lottavano per il potere. Durante il decennio rivoluzionario, dopo la battaglia che opponeva legittimisti a costituzionalisti, infatti, si cominciarono a delineare schieramenti che opponevano giacobini a foglianti, montagnardi a girondini, poi la rivoluzione si concretizzò nelle posizioni di Danton, il quale, segnato dalla durezza della repressione sanguinosa messa in atto da Robespierre, pentito di avervi egli stesso contribuito, avallando i massacri del 1792, cercava un compromesso, e di Robespierre, dallo stile di vita irreprensibile e rigidamente austero, che esprimeva una ferrea intransigenza, pronto a sacrificare ogni scrupolo morale ed affetto personali (l’amicizia con Danton e Desmoulins esprime questa scelta), a ciò che riteneva il bene della rivoluzione. La caduta di Danton, dunque, va inquadrata nelle inevitabili dinamiche politiche che oppongono ai regimi autoritari visioni del mondo e della politica fondamentalmente identiche quanto a finalità da conseguire ma contrastanti sul metodo. Contrasti che la storia recente ha registrato, ad es. nei conflitti di Stalin e Trotsky, in quelli di Deng Xiaoping e la Banda dei Quattro.
Sul palcoscenico dell’Argentina, Martone offre uno spettacolo lucido e di impianto perfettamente calibrato che sfugge alla dicotomia manichea che vuole Danton, personificazione dei vizi e Robespierre emblema di ogni virtù, esaltando le caratteristiche dei due protagonisti principali, di Giuseppe Battiston, di notevole spessore nel ruolo di Danton, e di Paolo Pierobon, il lucido e intransigente “Incorruttibile”, attorniati da una folla di attori bravissimi, che meritano di essere citati tutti, da Jaia Forte a Paolo Graziosi, a Fausto Cabra, Giovanni Calcagno, Michelangelo Dalisi, Roberto De Francesco, Francesco Di Leva, Pietro Faiella, Denis Fasolo, Gianluigi Fogacci, Ernesto Mahieux, Carmine Paternoster, Irene Petris, Mario Pirrello, Alfonso Santagata, Massimiliano Speziani, Luciana Zazzera, Roberto Zibetti, Matteo Baiardi, Vittorio Camarota, Christian Di Filippo, Claudia Gambino, Giusy Emanuela Iannone, Camilla Nigro, Gloria Restuccia, Marcello Spinetta, Beatrice Vecchione. Una trentina di attori in scena, tutti sollecitati per le tre ore di spettacolo a dare vita agli “ultimi giorni del terrore” e a costruire percorsi storici ed emotivi che incatenano il pubblico alle poltrone.
In questo allestimento del Teatro Argentina, che raggiunge momenti di grande impatto emotivo, mancano quasi del tutto le scene (pochi oggetti suggeriscono efficacemente i topoi come la ghigliottina, e la sua ottima ricostruzione, i letti, due tavoli, un leggio) e i numerosi sipari che si aprono e chiudono a varie profondità nel palco, a volte sospesi a metà permettono ad un coro di popolani senza teste di intonare “La Marsigliese”, o diventano muri infuocati, alcove licenziose, marciapiedi dove la fame viene combattuta con la prostituzione, sale dove si amministra una giustizia sommaria e dove le voci delle varie fazioni in lotta diventano momenti apocalittici. Sipari rossi, con i colori di un David, come gli interni popolati di nobili di Delacroix.
Un suggerimento cinematografico e culturale che Martone, che ha pensato le scene, regala al pubblico, con l’aiuto delle luci pittoriche ed emotive di Pasquale Mari. Frutto di un’accurata ricerca e poi ricostruzione storica i costumi, firmati da Ursula Patzak, le parrucche, le scarpe, le armi.