Roma, 15 maggio – Se l’intenzione fosse stata quella di fare uno spettacolo sui leit motive drammaturgici, Ronconi avrebbe creato un prototipo, un assoluto, che spinge verso le periferie delle interpretazioni un autore complesso con molti problemi personali, fra cui la misoginia, come August Strindberg. La versione della “Danza Macabra” di Luca Ronconi , nata qualche anno fa per il Festival di Spoleto, poi circolata per diversi teatri ed oggi giunta a Roma, al Teatro Quirino, è ancora tutta informata sulla esaltazione di forme stereotipiche come, per esempio, il vampirismo, che, come insegna la letteratura horror e la cinematografia splatter made in Usa, consiste in una catena di mostri originati da un morso sul collo del capostipite vampiro. Così i tre personaggi di questo drammone, il capitano Edgar, (Giorgio Ferrara al top e con una invidiabile elasticità fisica, qui un manipolatore d’attenzione con i suoi svenimenti veri o simulati, che lo fanno crollare a terra e alzarsi risolutamente poco dopo), la moglie, la scialba, venefica Alice (incantevole Adriana Asti, e bravissima a tracciare il personaggio secondo le direttive ronconiane), che si attiva solo quando irrompe nella tragica, stressata e suprema solitudine affettiva il cugino Kurt, Giovanni Crippa, deus ex machina della commedia. Nel corso dell’ora e mezza di spettacolo si trasformano man mano in mostri azzannatori tutti. Il che scatena l’ilarità del pubblico, preso alla sprovvista e subito pronto ad evocare situazioni da B-movie americani, con molti riferimenti alla Famiglia Addams, perché lo Strindberg che si appresta a vedere in realtà è una gustosa commedia noir trasferita nei climi nordici. E c’è ancora un leit motive che si appropria dello spettatore, e sono i continui svenimenti del capitano, che vengono ad intervallare momenti di danza semi accennati.
“Danza di morte”, o Danza macabra nasce il primo anno del secolo scorso ed è una rappresentazione disperata dell’esistenza venticinquennale di una coppia, più che scoppiata, come si direbbe oggi, ma il tutto appare quasi congelato, come il luogo dell’azione, un faro isolato come un memento sulla scogliera desolata, battuto da poderosi colpi di vento e ondate gigantesche che trascinano e spostano con le inevitabili oscillazioni tutti gli arredi di casa, un microcosmo sepolcrale come i cieli bianchi dove il giorno e la notte si sono accordati per un ricambio semestrale piuttosto che giornaliero, con la luce livida che taglia il grande nord freddo e grigio. Ed è facile alla fine “leggere” il luogo come quello della “non azione”, dove l’estrema limitatezza dei movimenti cinetici (salvo i più o meno simulati deliqui del capitano), dei personaggi, chiusi come in un ring claustrofobico determinato dai pochi mobili scuri e comodi e da un prepotente telegrafo che mette in comunicazione con il mondo, non cela la violenza di un rapporto ormai incapace di alimentarsi del sentimento, anzi pronto a morire per sfinimento, perché negli anni ha divorato la capacità di sopportazione reciproca. Come mummie, Edgar e Alice hanno trovato in piccole schermaglie velenose un accomodamento ideale per la loro vita limbica, vampirizzandosi reciprocamente, un gioco estremo, al massacro, che rende impenetrabile la loro solitudine, un gioco che è fatto di astrazione e mistificazione. Eppure voci di vita, suoni, musica arrivano dalla villa del dottore a risvegliare memorie inerti, e si riaffacciano alla mente i fallimenti che li hanno trascinati ad un oggi vuoto. Edgar, ufficiale relegato nel “nulla” ghiacciato di un isolotto, sede di una fortezza militare, Alice, ex-attrice senza talento, che si lega a lui e lo segue per venticinque anni, remissiva, obbediente come un cagnolino pronta ad eseguire per lui le marce per pianoforte che più gli piacciono, come quella “dei Boiardi” di Halvorsen. In questo quadro fisso, dove gli spazi sono occupati da una mortale routine, irrompe Kurt, un cugino della donna, incaricato di montare nell’isola una stazione di quarantena, colui che ha fatto conoscere i due coniugi, capitato lì per caso, che desta in Alice una ventata di femminilità, ed eccola trasformarsi, diventare seduttiva verso il cugino, in una scena sado-maso, in cui il povero Kurt è solo una sua preda, incapace di scansare le trappole emotive dei due che si spalancano d’improvviso come bocche d’inferno, dilaniato fra i loro pentimenti e i rimorsi per quel passato al quale non sono sfuggiti. Quando Kurt andrà via, i due ripiomberanno di colpo nello loro non vita quotidiana, in attesa di una fine troppe volte interpretata da Edgar con i suoi svenimenti.
Ronconi ha lavorato attentamente sul testo forte della riduzione di Roberto Alonge che dalle iniziali oltre tre ore di scrittura drammaturgica, ha sforbiciato la metà. La messa in scena personalissima attiva dimensioni espressioniste da commedia noir, tutta poggiata com’è sul bianco e nero, nero dei costumi( Maurizio Galante), dei mobili, dei capelli di Alice, una parrucca che occulta il bianco totale della chioma. Atmosfere fantastiche e orrorose, gotiche e chiuse come quella sorta di gabbia dove si rifugia Alice, issata su un praticabile (le scene mobili sono di Marco Rossi).
A dare il tocco finale le luci acciaiose di Weissbard, bellissime.