Teatro Argentina – ”Vangelo” di Pippo Delbono

Un viaggio fra i patimenti e le scissioni del XXI secolo

Roma, 28 gennaio – “Questo è teatro”, viene da dire, è anche il bisogno impellente di confrontarsi con le proprie idee e le convinzioni, quelle che ti fanno solcare la città lungo sperimentate  rotte e ti portano nei luoghi sacri delle rappresentazioni.  E diventa indispensabile, se si vuole assistere con l’onestà del critico, ritrovarsi in una nuova virginale identità e con occhi fanciulli ascoltare ed entrare nella magia del work in progress che si chiama “Vangelo” e che ha l’effervescenza inesauribile di Pippo Delbono e i suoi miti e i personaggi che lo rivestono di memorie, che sono prima di tutto lui e le sue età, e le esperienze del suo vissuto, e la madre, alla quale lo spettacolo è dedicato, interlocutrice assente, ma motivazione fortemente impressa nella carne viva di questo percorso di parola, ricordo, musica, sogno, allucinazione. Nello spazio scenico del teatro Argentina, e nella sala piena di coinvolti spettatori, la voce suadente e sensuale di Pippo Delbono parla  o legge con il sostegno di una lucetta  a led, tenuta a illuminare il testo che protegge nelle mani. E intanto solca gli spazi, incontenibile, parla di sé, citando i dottori della chiesa, Sant’Agostino, frasi di Pasolini, lacerti dai Vangeli,  parabole e suscitando con l’eco delle sue parole soffiate sul microfono, a volte quasi soltanto suono indistinto, un sommovimento mentale, una rivoluzione personale che si trasmette nel pubblico, anzi in ogni persona del pubblico modulata da sensibilità individuale, per invitarla al banchetto supremo di una forma di autoreferenzialità quasi a sfuggire a questo profluvio di memorie che non gli appartengono ma per simpatia hanno suscitato le proprie.

“Questo è teatro”, viene di mormorare, quasi a giustificare l’empatia affascinata, i trascinanti momenti musicali, il finale del Don Giovanni di Mozart,  lo Stabat Mater e i tanti momenti scritti per orchestra e coro polifonico con maestria e vicinanza semantica da Enzo Avitabile. E’ teatro anche nel chiaroscuro dei brani come “Sympathy For The Devil” dei Rolling Stones ed altri simili con il demoniaco che fa da contraltare. E’ teatro nelle splendide coreografie d’insieme, alla Broadway, in questo curatissimo gioco di luci  di Fabio Sajiz che seguono la “partitura” in fieri dell’opera, e danno ragione della sua originalità e della sua contemporaneità ad un tempo, con il ricorso alla cronaca, al reportage che coinvolge i mali, la migrazione scriteriata e selvaggia, in primo luogo. Un “Vangelo” del XXI° secolo per patimenti di oggi.  Anche il continuo trasformarsi della parola in movimento coreografico scisso, frantumato, assume un suo significato: è la libera interpretazione cinetica su binari paralleli con la parola. Dentro questo contenitore di linguaggi scenici c’è Pippo Delbono, il suo rapporto con la chiesa, la sua vicinanza con Cristo forse recuperata attraverso il dolore e poi perduta, la sua personale e apocalittica visione negli incontri con esseri umani contrassegnati dal dolore, dalla sofferenza di vivere, gente di confine, come il profugo afgano che ha visto morire il fratello in mare, come il clochard, il down, Bobò, l’amabile microcefalo sordomuto dell’ospedale di Aversa, oggi ottantenne, che ha preso a vivere con sé, tessendolo nello stesso ordito dello spettacolo. O spicchi di umanità che spuntano allucinanti dalla parete grigia del fondo del palcoscenico sulla quale scorrono in bianco e nero migranti africani nei campi di mais, sfruttati per pochi euro da un caporalato incoercibile. Poveri cristi che si confondono con un’immagine rimasta nella memoria di Delbono ricoverato in ospedale  per una malattia agli occhi, a fronteggiare la presenza di un crocefisso imperante su una parete bianca: “Vedevo doppio e cercavo di mettere a fuoco quell’immagine davanti a me” – sussurra Delbono sul suo “gelato”. L’immagine, dice, si sdoppiava e diventava grottesca, come doppio e grottesco appare il tempo nel quale non si può più riconoscere il vero dal falso, il reale dall’irreale, “dove l’esasperazione del moderno ci  ha fatto dimenticare qualcosa di sacro, di antico”. Perciò la clausola del suo spettacolo è quasi il completamento di un cammino a ritroso verso l’età dell’infanzia, con la scena che ospita un lettino-culla dove va ad accovacciarsi il giovane down Gianluca, e al suo fianco un grande cavallo a dondolo che Bobò, fa oscillare tirandolo per la coda: illustrazioni delle parole di Gesù :“Se non diventerete come bambini non entrerete nel regno dei Cieli”.  Delbono, buddista, contro il cattolicesimo che ha forse inquinato la sua fede bambina, ha costruito uno spettacolo, autoreferenziale come tutti i suoi lavori che hanno il sentore della sperimentazione geniale,  su suggerimento della madre che poco prima di morire gli aveva chiesto di fare un suo “Vangelo” come “un messaggio d’amore”. Un messaggio d’amore affidato a attori e gente comune perché il suo lavoro ha sempre valenza collettiva, perché lui ama la scena traboccante di umanità. Vale la pena citarli tutti, i presenti: Gianluca Ballarè, Bobò, Margherita Clemente, Pippo Delbono, Ilaria Distante, Simone Goggiano, Mario Intruglio, Nelson Lariccia, Gianni Parenti, Alma Prica, Pepe Robledo, Grazia Spinella, Nina Violic, Safi Zakria, Mirta Zecevic. Così come vanno citati i costumi di Antonella Cannarozzi, davvero fantasiosi e fuori tempo, così come le scene di Claude Santerre.  
 Lo spettacolo è una produzione Emilia Romagna Teatro Fondazione e Teatro Nazionale Croato di Zagabria. Co-produzione Théâtre Vidy Lausanne, Maison de la Culture d’Amiens – Centre de Création et de Production Theatre de Liège in collaborazione con Cinémathèque suisse- Lausanne, Teatro Comunale di Bologna.

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