Roma, 26 novembre – Una risata vi seppellirà, diceva un famoso umorista, colpito dalla durezza dei tempi e consapevole della forza dirompente del riso.
Perché la risata ha nel suo corredo il compito di smitizzare e ridurre su un piano concretamente dialettico qualunque angoscia ammantata di patema segreto custodita dai suoi due valletti: Il silenzio timoroso e la paura scatenata. In un momento storico, per certi versi assurdo, come quello che stiamo vivendo, dove la preoccupazione ben titillata dai media si è diffusa a macchia d’olio nel mondo occidentale, la risata è anche catartica, se vogliamo applicare ad essa la vecchia definizione aristotelica coniata per la tragedia. Ne sanno qualcosa i Favete Linguis, ovvero quel prodigioso trio composto dai fratelli Fresi Emanuela e Stefano e da Toni Fornari, professionisti della scena, calcata con virtuosismo canoro senza pari, ma anche con il piacere della recitazione brillante, spesso anche comica, interpreti di questo “Sanremo story” che trasforma l’open space del Teatro Golden con la zona spettacolo e quella del pubblico, in un unicum, perché solo pochissimi spettatori riescono a sfuggire alla malia dei coretti sollecitati dalla felice scelta delle canzoni operata con spigolature lungo sessant’anni del Festival più famoso dedicato alla musica leggera.
Sketches, parodie musicali, gag comiche e soprattutto una scelta di brani trasformano il Golden nel mitico Teatro Ariston, come anche una gigantografia della celebre facciata di quello che gli anni hanno trasformato in una sorta di tempio laico dove si amministra la storia d’Italia nelle varie trasformazioni intercorse nei decenni, a partire da quel lontano 1951 e dal saluto rimasto a lungo nella memoria: “Miei cari amici, vicini e lontani” formulato da Nunzio Filogamo, presentatore storico del Festival, sostenuto dalle note della grande Orchestra RAI al comando di Cinico Angelini. Anche qui c’è un’orchestra, o quasi, formata da Mimmo Sessa, Cristiana Polegri al sassofono ( più avanti, nel corso delle spettacolo, Cristiana canta con grazia una canzone) e Michele Ranieri (parente di Massimo). E subito “Grazie dei fiori” intonano i tre artisti assumendo una formazione ad angoli retti che favorisce la spazializzazione del suono.
Sul grande schermo scorrono immagini dei cantanti di allora e le loro canzoni “Vecchio scarpone” con la voce di basso profondo di Gino Latilla, “Papaveri e Papere” con il Quartetto Cetra, “Aprite le finestre” e Diana Torrielli e “Buongiorno tristezza” e Claudio Villa, “Vola, colomba” e Nilla Pizzi. Era un’Italia giovane, rinnovata dopo il grande brivido della guerra, Poi quegli interminabili anni ’50 giunsero al termine. Finirono con una rivoluzione, con un ciclone che si chiamava Modugno e che dimenticando che cor fa rima con amor, urlava a pieni polmoni “Nel blù dipinto di blù”, agitando le braccia e mimando la gran voglia di volare.
Un’inarrestabile bisogno di nuovo contagia tutto il mondo della canzonetta: arrivano gli urlatori: si chiamano Celentano, Dallara e la giovane Mina delle “Bolle blù”. Mille, per l’esattezza che si scontrano in volo con la “Zebra a pois”.
C’è una linea tematica sull’amore che percorre come un’autostrada tutta la storia di Sanremo. “L’edera”, canta Jula De Palma, sottolineando seduttivamente la propria attitudine leggermente asfissiante, “Io che non vivo “, dichiara Pino Donaggio nei favolosi anni ’60. “Io e te” risponde Peppino Di Capri in cerca di esclusiva negli anni’70 e ancora e ancora fino al recentissimo “Grande Amore” dove i tre ragazzi de Il Volo spezzano la barriera dell’anonimato e si protendono alla conquista del mondo.
Nel ’64 il Festival cerca la propria internazionalità invitando i grandi cantanti del mondo a duettare con i nostri. Quattro anni dopo uno stralunato Luis Armstrong abbarbicato alla sua tromba come un tabagista alla sigaretta canta “Mi va di cantare”. Poi, avendo ricevuto un “immorale” alto compenso per la prestazione cerca di esibirsi con un secondo brano, ostacolato duramente da Pippo Baudo, schiavo contento della sua scaletta.
Non sempre le canzoni giunte al primo posto in classifica hanno la stessa fortuna di vendita e non sempre vincono le canzoni più belle o gli artisti più rappresentativi e il Festival ha preso spesso storiche cantonate, escludendo decisamente personaggi come Lucio Dalla, Vasco Rossi e Zucchero. Il Festival ha avuto anche le sue stagioni, come quella particolarmente felice dei cantautori di scuola genovese Tenco, l’infelice artista morto suicida perché ferito dalla incomprensione delle giurie, Umberto Bindi firma un brano bellissimo come “Il nostro Concerto”, poi inciso da molti artisti o proposto come brano strumentale, Gino Paoli dopo un esordio giovanile con “La gatta” si è insediato da protagonista nella storia della canzonetta. A lungo Sanremo è stato il regno delle case discografiche che potevano fare la fortuna di un cantante, oggi sono i social con le strategie di marketing messe a punto a volte cinicamente a controllare ogni successo. La considerazione provoca naturalmente un’esilarante scenetta dei Favete Lnguis. Lo spettacolo si chiude con un medley di canzoni indimenticabili e con un invito, davvero non necessario, diretto al pubblico di cantare in coro.