Teatro Piccolo Eliseo – Ferdinando capolavoro di Annibale Ruccello
Bramosie proibite e inestinguibili
L’infelicità è l’elemento di transizione fra due età, due culture: una fissata sul meridiano di un tramonto ma quasi inconsapevole, l’altra sul parallelo della consapevolezza del passaggio.
L’Italia meridionale che si travasa dal regime borbonico a quello piemontese.
Da un lato donna Clotilde e i personaggi che le ruotano intorno: Gesualda, la rabbiosa cugina, custode, infermiera e capro espiatorio, e tutte e due indissolubili e armate dalla necessità, di avere qualcuno da possedere e controllare la nobile malata immaginaria, di assicurarsi una casa e un piatto caldo la parente zitella. Un legame cementato dall’ambiguo rapporto con don Catellino, il parroco. Questo equilibrato triangolo viene ad essere d’improvviso sconvolto dall’arrivo di Ferdinando, efebo depravato, nipote della nobile, il quale ben presto si impadronisce delle leve del potere dispensando piaceri proibiti e svegliando nelle donne una femminilità malata ombrata di passione infuocata e inestinguibile spinta oltre ogni estremo da un bisogno di possesso inesorabile. E non solo, perché nel contempo Ferdinando suscita perversamente il desiderio di Don Catellino, confermando la sua omosessualità.
Ma il capolavoro di Annibale Ruccello, morto appena trentenne, non è soltanto espressione di scelte di schieramento tra monarchia assoluta che regna su Napoli e nuove istanze ideologiche che parlano un incomprensibile piemontese. Né tantomeno può tradursi nell’affresco di un mondo promiscuo e dannato, che nutre germi di violenza sotterranea che si spinge fino al delitto, il mondo dei “femminielli”, che si vendono per uscire alla luce dal fondo senza speranza dei bassi napoletani, così ben raccontati da Eduardo.
Nelle accorte cure della regista Nadia Baldi, Ferdinando, testo nobilitato da due premi Idi, assurge ad una opera di tragica potenza fissando sulla scena la carnalità dei bisogni, la violenza insopprimibile che emana da un senso incoercibile del possesso che porta al delitto.
Non era facile reggere il confronto con Isa Danieli, ispiratrice del testo, ma Gea Martire, la protagonista ha abbondantemente vinto con la sua recitazione estrema, con i toni sopra le righe e con il suo napoletano strettissimo (un vero talento a renderlo comprensibile per il pubblico), esercizio linguistico prima di tutto. La sua Donna Clotilde somiglia ad una crisalide che diventa farfalla per poi tornare indietro e indossare la sua solitudine e l’arroganza del suo mal di vivere (la lunga tenda/lenzuolo vestaglia indossata dalla protagonista, felicissima scelta del costumista Carlo Poggioli, va in questo senso).
Opposta e quasi complementare Gesualda è la brava Chiara Baffi che spinge il personaggio dal percorso smanioso di incontri passionali con don Catellino a quello più torbido con Ferdinando, al quale si concede credendo di potersi arrogare un diritto in più in virtù del ruolo del giovane non oberato da divieti e colpe sacerdotali.
Perché le due donne alla fine possono accettare di condividere e consumare sessualmente il corpo/pasto dell’efebo ma mai di lasciarlo sedurre da don Catellino, personaggio indispensabile a suscitare il finale, ma il più debole del gruppo.
Mentre Ferdinando, l’imbroglione, sciorina la sua sessualità indistinta, il suo erotismo furbo, passando da un letto all’altro, consapevole di gestire le onde mostruose da lui stesso sollevate, a partire da quell’improvviso denudarsi sul letto di Clotilde.
L’allestimento scenico con carrellini scalette spostati continuamente è impreziosito da video proiezioni di Davide Scognamiglio, su di essi i costumi senza tempo di Carlo Poggioli.