Teatro Argentina – ‘Don Giovanni’ di e con Filippo Timi
La fame insaziabile del gioco d’amore
Roma, 6 marzo – Deformità come difformità, distruzione di uno degli archetipi fondamentali della cultura europea, quel don Giovanni che conduce la sua esistenza letteraria e musicale alla ricerca di un impossibile assoluto, lui, creatura “dei lumi”, indagatore dell’Oltre, incarnazione di una fame disperata e insaziabile, che Filippo Timi trascina in una sua volontà distruttiva che va al di là dello stesso personaggio attratto dalle proprie furie verso la morte.
Qui, al Teatro Argentina di Roma, don Giovanni già fin dall’apertura del sipario, cerca il confronto impossibile con l’estremo e dissacra intanto furiosamente i simboli in cui si è espresso il personaggio. Dalle sue lontane origini: quel “Burlador de Sevilla” di Tirso da Molina, poi ripreso da Molière e, ormai padrone dell’Europa, colonizzata dal fascino che sapeva emanare, approdato nella versificazione di Da Ponte e reso immortale da Mozart.
Filippo/don Giovanni apre gli occhi su un materasso a forma di croce, corpus centrale di esso. Ai suoi lati, due figure raggomitolate che sono corpi femminili e basta. Fin dal primo istante, ancora sotto i fumi e le suggestioni del sonno, allaccia un elastico sul braccio e si inetta in vena il suo demone personale.
Ora è pronto a raccontarsi e rivivere.
Lo fa partendo dal grottesco del proprio valletto Leporello, in scena con un costume dall’immenso deretano, una esagerazione barocca, e mettendosi assiso su un cantaro, una commode, insomma un wc portatile. Il servo poi corre sollecito a ripulirlo con carta igienica filante come una stella. Metodo efficacissimo per informare che siamo in pieno dominio scatologico, e dunque quale profilo mostrerà lo spettacolo…
Timi aveva sottoscritto il suo lavoro con la frase “Vivere è un abuso, mai un diritto”.
Questo basta a giustificare la poetica dell’eccesso che sembra sottesa a questo spettacolo che pone a chi lo guarda innanzitutto un problema estetico?
È corretto utilizzare un personaggio che ha colonizzato l’immaginario collettivo con le sue caratteristiche particolari e prima fra tutte la capacità di liberarsi dalle strettoie della cronologia e di diramarsi dai luoghi e dai tempi fino a diventare universale?
Una prima risposta la dà il pubblico presente che si diverte senza alcun ritegno, che sottolinea le volgarità ricercate e quelle strie di lirismo che si inzuppano come biscottini nel liquido melmoso di un kitsch dominante e creativo per quasi tre ore di spettacolo. Che è anche un’opera pop, anzi un minestrone di idee, di linguaggi tratti dai vari ambiti in cui si è espresso l’archetipo Don Giovanni, l’infaticabile inesausto seduttore, schiavo del piacere, e perciò è divertente, irriverente, dissacrante, ironico, esagerato sempre. Bianco e nero di una scacchiera dove i personaggi di contorno, perfettamente sintonici con il mostro settecentesco che macina eros, rendono vivo e palpabile il gioco e la follia e quel senso di morte che è al fondo del tunnel per un pronto confronto. Perché l’umanità che si aggira coinvolta dai suoi inebriamenti è ossessiva e sovrabbondante e vive dei suoi stessi valori e delle sue contraddizioni.
Donna Elvira, rossa come la passione, lo insegue per le vie del mondo, pronta ad inghiottire sempre la stessa esca, la rassicurante menzogna, veleno per l’anima distillato dal suo bisogno di possedere ed essere posseduta dall’ineffabile nulla del mistificatore di Siviglia. Il costumista Fabio Zambernardi l’ha vestita con un immenso abito rosso sul quale spiccano nodi d’amore in nero di pelle lucida.
Donna Anna, la brava figlia del Commendatore, nella deformazione grottesca di Timi è dapprima una bimbetta paralitica su sedia a rotelle, arrabbiata per non aver potuto lei stessa uccidere il padre, poi una virago gigantesca, che veste di nero come una dark lady e indossa coturni altissimi. Per questa erinni il costumista ha pensato un immenso abito nero, dalla cui sottana fuoriesce un bordino di infantili quadrettini rosa.
Per inciso, il commendatore, che nel Don Giovanni classico è figura austera e agente di morte ( e lui che con il suo pugno di marmo trascina tra le fiamme eterne lo stupratore della figlia), parla uno strascicato e grottesco dialetto sardo.
Meraviglia di questo spettacolo sono davvero i costumi, tutti di grande impatto visivo. Don Giovanni appare dapprima in un abito di scena traslucido che lo fa assomigliare ad una statuina di porcellana settecentesca, poi cambia indossando uno spolverino interamente ricoperto di fiori, quindi di parrucche femminili, di ogni lunghezza e colore che da lontano sembrano una insolita pelliccia, o ancora è vestito con un soprabito lungo fino ai piedi che è una sorta di documento delle sue attività di amatore essendo formato dalla biancheria intime di fogge e dimensioni diverse, e nel finale porta un lungo vestaglione di striscette rosse illuminate da bagliori di paillettes.
Zerbina è sempre una damina settecentesca, una statuina di Sevrès, con i tessuti gommosi e lucidi utilizzati e i referenti floreali.
Bravissimi ed eclettici gli attori in scena da Lucia Mascino a Marina Rocco, a Elena Lietti a Umberto Petranca, a Alexandre Styker,a Matteo De Blasio a Fulvio Accogli a Roberto Laureri.
Lo spettacolo è una produzione congiunta del teatro Franco Parenti e dello Stabile dell’Umbria.-