I Pieranunzi, (Enrico al pianoforte e Gabriele al violino) in Trio con Gabriele Mirabassi al clarinetto, il Gotha del jazz nostrano, per una Serata Gershwin all’Aula Magna de “la Sapienza”, ovvero un viaggio tra le note del primo cantore classico della cultura musicale statunitense, George Gershwin, colui che mescolando in un calderone i tracciati sonori degli amatissimi compositori della vecchia Europa (Ravel, Debussy e Schönberg), le suggestioni del ricco folklore con la ritmica vivacissima e travolgente, che erano il linguaggio originario dei neri giunti come schiavi e ormai affrancati, quel mondo di suoni che già preludevano ai trionfi di celluloide di Hollywood, la Mecca della ancor giovane arte, che ingoiava insaziabilmente colonne sonore, e il musical targato Broadway, riusciva con un miracolo di sincretismo a creare un sinfonismo americano, pronto a colonizzare i più austeri luoghi deputati alla musica classica.
George Gershwin che aveva raccontato con una tavolozza europea le emozioni del musical ‘Un americano a Parigi’, affidando al linguaggio dinamico e possente di Gene Kelly, che nella celebre versione cinematografica balla giocando con la pioggia e le pozzanghere, l’incarico di diffondere le malie della Ville Lumière agli occhi incantanti e un po’ ingenui dell’americano medio.
Così prende vita “Rhapsody in blue”, la sigla di Manhattan da quando Woody Allen l’adottò per il film cult che del celebre quartiere di New York portava il nome. E’ il trionfo del jazz, il suo sdoganamento, ed è anche, oggi lo si può affermare perentoriamente, la pagina più nota di tutta la letteratura americana fin dalla sua prima esecuzione all’ Aeolian Hall, il 1 febbraio del 1924, con Paul Whiteman sul podio e lo stesso Gershwin, pronto a sprizzar faville virtuosistiche dal pianoforte.
Colpì subito quell’incipit affidato al clarinetto e il glissando che si inerpicano veloci e sempre più su come una saetta e che sembrano illuminare nel passare la folla dei meravigliosi grattacieli di Manhattan. New York aveva trovato il suo cantore, il trionfo era inevitabile. Il compositore confessò di avere pensato alla struttura dell’opera in poche ore seguendo il canto e la ritmica di un treno che lo portava a Boston: “Ero cullato dal battito delle ruote, da quel caratteristico rumore ritmato che stimola la fantasia dei compositori… quando d’un tratto sentii, vidi sulla carta lo schema completo della Rhapsody”.
C’è tutta un’aneddotica che si è sviluppata attorno all’opera, che registra alcuni primati, primo fra tutti quello di avere strappato il termine “jazz” agli ambiti di un repertorio musicale collegato ad ambienti piuttosto equivoci della New Orleans dell’epoca, tanto da potersi leggere nelle note che accompagnavano la serata: “l’incredibile progresso compiuto dalla musica leggera dai giorni del jazz disarmonico, il cui impetuoso emergere quasi dal nulla risale a circa dieci anni fa, fino alla musica d’oggi, così melodiosa che, senza alcuna ragione valida, si insiste con il chiamare jazz”. La genesi del lavoro deve molto a Paul Whiteman, un musicista che aveva messo su un’orchestra da ballo famosissima nei ruggenti anni Venti. Fu Whiteman a lanciare una specie di concorso che avrebbe dovuto dar vita ad un concerto dedicato alla musica americana, al quale furono interessati celebri musicisti come Irving Berlin, il re delle colonne sonore, e Victor Herbert.
Ma Gershwin proprio in quei giorni stava componendo Rhapsody, un concerto jazz. Dove meglio, dunque? Il titolo, quel colore “blue” che ha finito con il connotare nel corso dei decenni il vitalismo del cuore di New York, ma anche quella nota malinconica che l’accompagna, pare sia stato scelto da Ira Gershwin, fratello di George, suo collaboratore d’eccellenza, pronto a sostenerlo sempre. La partitura, dove energia e vitalismo si tengono per mano e si possono ancora ascoltare travolgenti in una rara incisione dell’epoca, è qui riproposta dal Trio di Enrico Pieranunzi.
Il programma della IUC (Istituzione Universitaria dei Concerti) presenta anche brani da “Gershwin in Hollywood”, album uscito postumo nel 1953, a cura di Ira Gershwin – George era morto per un cancro al cervello nel 1937 –, che raccoglie alcune celebri melodie come “The Man I love”, “I got rithme”. Qui le abbiamo ascoltate insieme a “But not for me” e “Love walked in”.
E venne il momento in cui George si sentì pronto ad affrontare il confronto con la lirica. La sua opera “Porgy and Bess”, ispirata al romanzo omonimo di Edwin Dubose Heyward, con le parole dei songs firmate da Ira, sconcertò pubblico e critica: era un tipo di spettacolo inedito per le scene liriche, che lo stesso autore aveva chiamato Folk-opera, a rimarcare che si trattava di un racconto popolare sulla vita dei neri del cotone, dunque i loro canti non potevano che rispecchiare il loro modo di vivere, ma spirituals e folksongs non riprendono quelli tradizionale, sono opere vere e proprie inedite, semmai solo popolareggianti.
Da “Porgy and Bess” sono tratti due brani bellissimi, ambedue proposti dal Trio nella trascrizione di Jascha Heifetz: “My Man’s Gone Now” e “It Ain’t Necessarity So”.
Un musicista cresciuto nel culto della musica targata USA come Pieranunzi ha dedicato ad uno dei suoi autori preferiti un proprio brano dal titolo ”Variazioni su un tema di Gershwin”, che prende lo spunto dal song “Irish Blues”.
A completamento del programma, che si è chiuso con molti bis richiestissimi, anche tre Preludi che dovevano far parte di una composizione più ampia articolata in 24 brani rimase incompleta.