Roma, 8 novembre 2017 – Un mattatore, un attore, un capocomico come Enrico Guarneri dalla irresistibile carica di simpatia, in grado di coprire le necessità espressive di tutta quella gamma di situazioni che vanno dal patetico al surreale, all’umorismo, (esitazione fra riso e pianto, secondo la definizione di Luigi Pirandello), al paradosso, alla fissazione maniacale, fino allo scatenarsi della comicità più esilarante. Questo occorreva per portare in scena il Pirandello ben costruito dal regista Guglielmo Ferro, oggi in scena al Teatro Quirino. Con il titolo Le Maschere, il lavoro è una realizzazione di meta-teatro, vuole illustrare un concetto come quello della maschera, sotteso da un pensiero filosofico complesso, mirabilmente sfaccettato che indaga l’uomo ponendolo nel contesto di una società complessa dove ancora è fortemente viva l’appartenenza ad una cultura rurale, mentre l’estetica si confronta con le nuove ricerche sulla psicoanalisi di Freud. Nel testo messo a punto da Guglielmo Ferro, che ne è anche il regista, attingendo ai ‘Sei personaggi in cerca d’autore’, ‘I giganti della montagna’ e ‘Il berretto a sonagli’, prende forma l’estetica pirandelliana con il caposaldo del pessimismo che impronta la natura dell’uomo, costretto a districarsi fra ciò che appare all’esterno e la propria intima sostanza, fra l’apparire e l’essere, sottoposto ai giochi di potere che azionano le “corde d’orologio” che ognuno si ritrova in testa, quella seria, la civile, la pazza, per citare ‘Il berretto a sonagli’.
‘Le Maschere’ raccontano due tappe nel tracciato del grande scrittore, quella legata ad una espressività naturalistica e l’altra in cui l’indagine è sull’uomo nel contesto sociale. Due momenti rappresentati da “La Patente” e “La giara”.
Nella bella scena alpestre di Salvo Manciagli, dove riposano affastellati simulacri umani e attori con i costumi dalle tinte calde da Dora Argento, Ferro immagina l’arrivo della compagnia degli attori capeggiati dal Cotrone dei ‘Giganti’, invano dissuasi dallo scalare la montagna da fracassi terrorizzanti scatenati dagli strumenti per fare vento, finte saette, fantasmi, urla. Superate le barriere fittizie, ecco che può iniziare un discorso sul teatro nella villa degli Scalognati dove con semplici ma efficaci trovate sceniche d’improvviso cambia il panorama anche umano e Cotrone trasmigra in altri personaggi indimenticabili, in Rosario Chiarchiaro, in Don Lolò Zirafa. E subito allo spettatore si svela una sala che si suppone quella del giudice D’Andrea, rallegrata dalla gabbietta dell’amato canarino.
È l’immersione nel paradosso tragicomico de ‘La Patente’ perché il modesto impiegato del monte dei pegni, Chiarchiaro, licenziato perché sospettato di essere uno jettatore, e accolto al suo passare dalle corna scaramantiche di giovinastri, per mantenere moglie invalida e figlie, decide di sfruttare la maschera che la maldicenza e la credulità del paese gli ha incollato addosso e ricavarne il giusto tornaconto. Vestito tutto di nero come un corvo, viene a pretendere la Patente, riconoscimento di menagramo ufficiale, dopo avere dato prova lampante della sua potenza allo stesso giudice facendo rovinare a terra e morire il prezioso canarino. Personaggio amatissimo e portato all’eccellenza anche da Totò, il Chiarchiaro di Guarneri continua a mietere sorrisi amari.
Il secondo atto di questo spettacolo, celebra 150 anni della nascita di Pirandello, e della prima rappresentazione a Roma de ‘La Giara’, è costituito da quest’opera, che fa parte con ‘La Patente’ di ‘Novelle per un anno’. Qui, in un oliveto di proprietà del causidico Don Lolò Zirafa, è scoppiato il dramma, la giara pagata ben quattro onze (un’onza valeva 180 euro di oggi), proveniente dai forni di S. Stefano di Camastra, che al solo sfiorarla cantava note possenti, si ritrova squarciata. Viene chiamato per accomodarla un artigiano con attitudini filosofiche, Zi Dima, creatore di un mastice che salda indissolubilmente, un Attak anacronistico. Ma l’arido don Lolò, che ha fatto della diffidenza il proprio tracciato di vita, vuole anche i punti di sutura per essere certo del risultato. Questo impone che Zì Dima si ficchi dentro la giara. Operazione facilissima mentre lo squarcio è aperto, impossibile ad opera completata data la bocca ristretta del vaso e la gobba provocata dal moschetto durante i cinque anni della naja. Guarneri si è naturalmente cucito addosso i panni di Zì Dima che con un gioco di sguardi, atteggiando la voce in mille modi, piagnucolando ed esaltandosi, pregando e lastimando, provoca l’ira di don Lolò che con un calcio fracassa la giara. Lo spettacolo ha visto la platea riempirsi di molti giovani sollecitati dalla intelligente programmazione del Quirino che offre al suo pubblico anche concerti aperitivo cui segue una degustazione di vini legati al territorio della Regione tutte le domeniche fino alla fine dell’anno.