Roma, 21 ottobre – Era bella e ridente la vita al villaggio, l’aria era fresca e pura, i colori pastellati delle vesti delle giovinette riempivano di bagliori colorati tutto intorno e si riverberavano verso l’alto, verso quel castello arroccato sul picco della montagna, dimora del duca Albrecht. Sullo spiazzo ferveva la vita e le fanciulle provavano i primi guizzi amorosi. Fra esse, una creaturina delicata, appena quindicenne, piena di passione e con la danza legata al piede, tormento della mamma, per i rischi che una gioia sfrenata avrebbe potuto comportare al suo fragile corpicino. In quell’autunno che regalava acini turgidi da vendemmiare, è lei a salire inghirlandata sul carro, reginetta della fine del raccolto, sotto gli occhi vigili e amorevoli della mamma, sotto tutt’altro sguardo di Hilarion, che quasi se la gusta crescere e attende solo il momento opportuno per chiederla in moglie. Lei si chiamava Giselle e la storia del suo amore svanito è diventata capolavoro dei balletti romantici e leggenda nella note di Adolphe Adam e nelle coreografie di vari artisti e in questa sulla scena del Teatro dell’Opera, ripresa dall’originale di Jean Coralli e Jules Perrot dall’illustre Patricia Ruanne, collaboratrice di Nureyev.
La dolce Giselle, durante la festa, scorge un giovane sconosciuto farsi largo e incantare di sé, del proprio portamento, della bellezza del volto, dei muscoli sottili e aristocratici le ragazze, e, colpita da frenesia ed esaltazione, balla tra le sue braccia, trascinata dall’amore in quella dimensione magica che annulla la realtà.
Il risveglio dal sogno ha il suono del corno da caccia che invade il bosco con i suoi bagliori d’ottone: c’è il principe di Curlandia con la figlia Bathilde, fidanzata del Duca, e tutto il seguito dei cortigiani.
La principessina manifesta il desiderio di rinfrescarsi nell’umile casetta di Giselle, mentre Hilarion, scoperta ormai la passione del duca, si affretta ad informare quella ragazza, che avrebbe voluto per sé, dell’inganno subito e Giselle impazzisce. Semplicemente impazzisce, e come una falena attratta dalla fiamma, trova conforto solo in quel suo abbandonarsi doloroso alla danza, finché con un ultimo sussulto si accascia per sempre, dolente dall’inganno del suo “principe”, che lei credeva chiamarsi Loys, nome con cui le si era presentato.
Ora il riposo di Giselle è vigilato da una grande croce nella radura brumosa del bosco. Attorno un bisbiglio di passetti delicati, uno sfarfallio di alucce che vibrano per svegliarla mentre la nebbiolina si deposita nell’aria e un raggio di luna illumina la notte azzurra, ed ecco Giselle che si libra dalle strettoie del sepolcro, e richiamata ad una esistenza a metà, volteggia con i veli dell’abito nuziale che non poté indossare in vita, con quelle ghirlande e quei fiori argentei. La sposa fantasma è ormai una Villi e vive con le compagne sotto la disciplina di Myrtha, la regina-spettro, che esercita il comando con un ramoscello dell’arbusto di cui porta il nome.
Tutti sanno che le Villi, o Silfidi, pur aeree e inconsistenti come la natura stessa dei sogni, sono in realtà delle pericolosissime creature notturne, delle baccanti senza pietà che attendono l’occasione propizia per vendicarsi, costringendo a danzare fino allo sfinimento chiunque incontrino.
Proprio quella notte il bosco ospita Albrecht ,disperato e pieno di rimorsi; egli guarda le Villi muoversi aeree e fatali e poi vede lei, Giselle, ancor più bella e colma di ineffabile e arcana giocondità, delicata farfalla che danza la voluttà del desiderio.
Ed è così che appare la protagonista dello spettacolo del Teatro dell’Opera, questa Amandine Albisson, premiata per la qualità della sua arte, per la tecnica che convinse i suoi insegnati a farle scalare le vette del diploma (aveva cominciato a quattro anni a Marseille, sua città natale) e poi a far suo un ricco palmarés di premi internazionali. Lei, étoile dell’Opéra di Parigi, disegna una Giselle mediterranea, fiorente fanciulla e efebica villi. E qui, nel celebre “atto bianco” si esprime più che mai il suo valore, allora il suo ballare non è più solo corpo che danza. Ogni muscolo si flette obbediente alle necessità espressive. Le lunghe braccia sinuose acquisiscono la leggerezza di onde, ali, ecco, sarebbe più giusto definirle così. Pur nel rigore e nella freddezza del ruolo di fantasmina e della danza accademica, la bella Amandine potrebbe essere una risposta a chi si fa domande sul successo riconquistato dalla danza nei palcoscenici lirici.
Il ruolo di Albrecht è ricoperto dall’etereo, elegante Mathias Heyman, ballerino étoile.
Nel ruolo di Hilarion la certezza della bravura del nostro Manuel Paruccini, primo ballerino nel corpo di ballo del Teatro dell’Opera.
In questo spettacolo sono ridotte all’essenziale le scene (Anna Anni), solo due casottini a simboleggiare la casa di Giselle e il piccolo magazzino dove Albrecht per non essere riconosciuto nasconde le armi con le insegne del suo casato, e una grande croce bianca.
I costumi, molto belli i colori pastello della festa del villaggio, serici e luminosi, sono quelli ormai storici della compianta Anna Anni.