Teatro Eliseo – Gran Guignol all’italiana con Lunetta Savino

Dallo sparo al riso e viceversa

Roma, 27 novembre – Grand Guignol all’italiana, recita il titolo di uno spettacolo in cartellone al teatro Eliseo. Il Grand-Guignol è stato un genere teatrale, anche di un certo successo. Destinato ad essere eccessivo e truculento, a mostrare corpi squarciati, membra lacerate e, soprattutto, tanto tanto sangue.

Era uno sfogo in tempi difficili di sommovimenti politici, di oppressioni, di paura, anzi di terrore istituzionalizzati. Era nato dal nome di Guignol, un burattino così chiamato da Laurent Mourguet e ben presto trovò la sua ispirazione in un mondo di personaggi estremi: veniva esibito infatti un panorama di sofferenze di poveri innocenti, di infanticidi, di insanità, di turpi vendette, spesso condite con riferimenti all’occultismo e al paranormale con qualche pizzico di sesso ad insaporire il tutto. Il successo convinse a dedicare un intero teatro a questo sottogenere farsesco e grossier. Il teatro“Gran Guignol”,  situato a Parigi nel IX° Arrondissement, dall’ apertura nel 1897 fino alla chiusura avvenuta nel 1963, fu uno spazio specializzato in spettacoli decisamente macabri e violenti, facendo registrare ogni sera il tutto esaurito e rendendo celebre questo genere orrorifico in concentrate e brevi pièce, ripetute diverse volte durante la serata, Nelle intenzione questa forma di spettacolo voleva assumere il ruolo di valvola di sfogo per quei terribili semi di violenza che covano in ogni società, frutto di malesseri endogeni. E certo potere vedere rappresentate rumorosamente le proprie angosce assistendo a turpitudini che univano violenze e cinismo, crudeltà gratuite – e quando non lo sono!-, a storiacce da cronaca nera doveva essere liberatorio. Se poi si univa la femminilità urlata e sessualmente adescatrice con la pericolosa e verginale ingenuità che stimola l’istinto di conquista violenta, il gioco era davvero fatto. Perché l’eccesso trascinava il divertimento sull’altra sponda, quella della comicità.

Dalla Francia si diffuse in Europa, a Londra, soprattutto. In Italia il Grand Guignol fu importato nel 1908 da Alfredo Sainati con la sua Compagnia del Grand-Guignol. In Spagna se ne fece portavoce Federico Garcia Lorca che girava le assolate province del sud con il suo Carro di Tespi e raccoglieva paesani con farse guignolesche scritte per i suoi burattini, che suscitavano la risata nella misura in cui si rivolgevano alla pancia del pubblico contadino e analfabeta. A decretare la morte del grand-guignol non fu un pugnale insanguinato nell’ombra ma la luce “stroboscopica” di una cinema con il suo genere splatter, furono vampiri, ammazzatori seriali e tutta la lunga serie di film spesso di serie B, C, etc. Ora si tenta una riedizione con questo “Grand-guignol all’italiana “. 

Ma la storia non sempre vive di corsi e ricorsi e un fenomeno conchiuso come il guignol e i suoi effettacci trucidi non può semplicemente riproporsi come una riscoperta se non subendo poi i rischi ad essa connessa. E a teatro il rischio peggiore, il grande nemico, si sa, è lo sbadiglio. Quindici anni fa Vittorio Franceschi volle provarsi con questa forma teatrale, adattandola, già nel titolo, ad una visuale leggermente differente. Il suo testo si chiama, infatti, “Grand Guignol all’italiana”, ma non riesce davvero a confrontarsi con il genere e di italiano non ha che i nomi dei personaggi.

A sottrarlo al giusto riposo ha provveduto Alessandro D’Alatri, mettendo insieme una improbabile ed ignorante colf, Esterina, convinta di essere pugliese ma alla quale tutti attribuiscono un’origine maceratese, con Lunetta Savino che trasporta sulla scena la sua comicità naîve e un po’ ironica che ha decretato in televisione successo al personaggio della domestica in “Un Medico in famiglia”, che continua per tutte e due atti (ma perché farla così lunga,se le idee sono così peregrine?) a lamentarsi di essere magonata, con un profondo e continuo pensiero fisso sul sesso, che vive nella costante memoria di Ettore, il fidanzato dal fetido respiro, diventato sposo dell’amica carissima Elide, malgrado gli approcci violenti del salumiere sottocasa, marionetta da operetta comica, portato in scena da Andrea Lupo. Lei è a servizio di una famiglia, dove impera una moglie piena di languori e dedita a placare le sue fiamme sessuali (Carmen Giardina), che dopo avere abusato di appuntamenti con Umberto, l’amante dentista, chiamando in causa l’intera chiostra dei suoi famelici denti, ha trovato soddisfacimento ai bisogni concreti di carezze voluttuose con Umberto, ginecologo particolarmente atto alla bisogna. Ma quanti umberti! Perché anche il marito (l’attore Umberto Bortolani) si chiama Umberto e vive facendo la guida turistica per i monumenti di Roma. Poi, si scoprirà, che Umberto, detto Umbi, è anche il manierato postino belloccio (Sebastian Gimelli Morosini) che ha acceso la fantasia di Esterina, finché non fa outing svelando interessi divergenti. C’è un ultimo personaggio, visto solo come ombra cinese, un cagnaccio aggressivo dalla profonda voce di basso forse solo incavolato di essere lasciato fuori, al fresco, sotto la pioggia e certo nel fango.  

A creare scompiglio e a dare energia al gruppetto ecco un concorso canoro per trovare le parole ad un nuovo inno nazionale che dovrebbe vivere sulle note del “Va Pensiero” con un premio finale di 20 milioni di euro in palio per il poeta.

Sarebbe questo il coup de théâtre, poco prima che nel finale compaia vestita da uomo ragno la Savino a far fuori tutti a pistolettate, riservando l’ultimo colpo… Per sé? No!, per il cane ringhioso.

 

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