Il duello Frost/Nixon
Il confronto fra il giornalista e l’ex-presidente degli Stati Uniti
Roma, 27 maggio – Eppure è stato un grande presidente: questa è la considerazione che sale alle labbra quando ci si concentra sulla personalità di Richard Nixon, assistendo a questo brillante esempio di teatro civile di scena all’ Argentina dal titolo “Frost/Nixon” con Ferdinando Bruni e Elio De Capitani, anche registi. E questo malgrado lo scivolone finale, quella storiaccia brutta di spionaggio in campagna elettorale contro il partito democratico che la storia ha registrato come il “Watergate”, che ha trasformato la gloria in una farsa da teatrino off, con il grande uomo che si fa scoprire con le mani nel barattolo di marmellata. Eppure, lui, il Presidente degli Stati Uniti d’America, conservatore repubblicano, aveva all’attivo successi sia in patria con le leggi che favorivano la libertà di impresa, la lotta alle droghe, le prime politiche ambientali, i corposi investimenti per la ricerca contro il cancro, che nel resto del mondo ed era riuscito, in virtù della sua abilità diplomatica di negoziatore, a penetrare il muro di gomma inesorabile della Cina di Mao. Allora, la gara del pingpong nella quale si esibirono atleti cinesi e americani in una sfida carica di significati, fece diverse volte il giro del mondo. Sua la scelta del disimpegno dalla guerra del Vietnam, suo il marcato anticomunismo. Nel 1974, vigente il trentasettesimo presidente degli Stati Uniti, il primo proveniente dalla west coast (dopo di lui solo Obama ), si scoprirono le fila dello scandalo, che avrebbe sporcato ancora una volta la faccia del potere e Richard Nixon il 9 agosto per evitare le procedure di impeachment fu costretto a rassegnare le dimissioni dalla carica. Il suo successore, Gerard Ford, gli concesse il perdono presidenziale, in virtù del quale nessun tribunale avrebbe potuto condannarlo e non gli veniva fatto alcun addebito per gli atti illegali compiuti come presidente in carica.
Da quel momento Richard Nixon rifiutò ogni intervista, ogni pubblica scusa. Nel 1977, tentando la scalata verso una notorietà mondiale, il conduttore inglese di talk show David Frost, in carico alla televisione australiana, ottenne di intervistarlo. I quattro incontri concordati avvennero in uno studio televisivo e tennero incollati agli schermi milioni di spettatori. I confronti poterono assimilarsi ad un vero e proprio duello, un evento nella storia della televisione americana: fu il più seguito programma di informazione di tutti i tempi. E furono proprio quei match ad essere ripresi nella pièce teatrale di Peter Morgan, abile nel guardare alla storia recente e a trarre da questa delle lezioni importanti, utili per leggere il presente. Morgan ha visitato l’America della fine degli anni Settanta (il periodo cruciale per il movimento della contestazione), ed è giunto attraverso la lente amplificante della televisione (che con un solo fermo immagine può decretare la caduta di un uomopubblico), a formalizzare almeno tre istanze fondamentali. In queste interviste si concretizza infatti la consapevolezza che la televisione legittima se stessa come pubblico tribunale, registra il processo di personalizzazione della politica, umanizzando atti diversamente affidati ai giudizi della storia. Peraltro, il processo di visibilità dei candidati politici, della loro notorietà e dunque riconoscibilità, già si era messo in moto nel 1960 durante il duello elettorale fra il repubblicano Nixon e il democratico Kennedy. E, infine, decreta che le inchieste giornalistiche possono essere proficuamente condotte anche da professionisti dell’intrattenimento e non necessariamente da giornalisti politici. Fra i duellanti: il rampante giornalista Frost che gioca e investe sue risorse personali pur di mettere insieme la cifra richiesta dall’ex presidente(600.000 Dolls) e Richard Nixon, che l’America ha in qualche modo perdonato dello scandalo, specie dopo l’opaca era Carter, e che ha l’elegante, altera tragicità di un personaggio shakespeariano, si stabilisce un rapporto che va al di là di una semplice sfida fra due mentalità e due diverse età, fra un padre e un figlio, ma investe tutto un modo di vivere la politica, due concezioni di intendere il potere, il successo, accomunati tuttavia sotto l’egida del dio dollaro. Inoltre, mette in luce l’importanza degli staff, pronti a cogliere una sia pur minima traccia di cedimento da una parte o dall’altra, giudici severissimi che sanno come ogni azione, parola, omissione, come il minimo cambiamento nel registro emozionale, verbale o semplicemente espressivo possa determinare la vittoria del round che si sta combattendo. Alla fine c’è un vincitore e c’è un vinto, ma le dinamiche della politica e le leggi inderogabili dei mass media non possono del tutto blindare l’umanità che traspare dai due antagonisti, innalzandoli mitologicamente nel cielo degli eroi, non importa se tarati negativamente o positivamente.