Roma, 10 febbraio 2022 – Diciamolo subito. Non è un film per tutti “Il muto di Gallura”, opera prima del regista torinese Matteo Fresi, classe 1982.
Tutto in lingua originale (sa limba, nella variante gallurese), con sottotitoli in italiano continentale.
Lo potranno amare coloro per i quali la Sardegna si associa naturalmente a località come Calangianus, Tempio Pausania o Oschiri, anziché Porto Cervo o Porto Rotondo.
Bisogna ricordarsi sempre che, come recita il titolo di un libro del nuorese Marcello Fois, “In Sardegna non c’è il mare”. Casomai le sta intorno.
La pellicola è tratta da una vicenda reale, narrata nell’omonimo racconto storico sardo dello scrittore sassarese Enrico Costa, pubblicato nel 1884.
È una vicenda gallurese di metà Ottocento, una storia di desamistade, faide tra nuclei familiari del paese di Aggius.
Il tutto inizia nel 1849, mentre l’Europa è infiammata dai moti rivoluzionari, e si protrae negli anni a seguire, mentre il Risorgimento porterà all’Unità d’Italia.
Nulla di ciò arriva nell’enclave gallurese, in cui il tempo è cristallizzato nel passato, come i graniti della Sardegna settentrionale vecchi 300 milioni di anni.
Feroci vendette e controvendette tra pastori, in applicazione di un codice etico tribale che non risparmia la morte a nessuno, donne e bambini inclusi.
Ci fermiamo qui nella sinossi della trama, gli interessati vedranno il film o leggeranno il romanzo.
Preme invece soffermarsi sulla chiave di lettura.
Non ci sono dubbi, è un film western.
Ai cow-boys, i vaccari dell’Ovest americano, si sostituiscono i pastori di pecore e capre.
Al Winchester e alle Colt fanno da contraltare le doppiette a tracolla.
Alle case di legno del West, gli stazzi galluresi in blocchi granitici.
Alle forme rocciose della Monument Valley si contrappongono i picchi granitici del Monte Limbara e i tafoni, morfologie bizzarre prodotte sugli ammassi rocciosi cristallini dall’erosione del vento.
Il Settimo Cavalleggeri e gli sceriffi li rimpiazzano invece i soldati piemontesi, truppe di occupazione spaesate e incapaci di comprendere appieno tradizioni e strutture sociali arcaiche.
E poi gli autoctoni, i nativi gadduresi. Un po’ cow-boys e un po’ indiani, abili nel maneggiare i tradizionali coltelli sardi.
La civilizzata Sassari, nominata ma mai vista, lontana come New York e Boston lo sono dal selvaggio West.
Da ultimo il muto Bastianu, il cui silenzio è la risposta alle due espressioni di Clint Eastwood (con o senza cappello).
D’importazione nel cast c’è poco, con tanti ottimi attori locali. Inclusa la bionda Gavina dagli occhi cerulei, interpretata dalla sarda d’adozione Syama Rainer che, a dispetto delle fattezze e del nome, è una cittadina di Telti (per gli esperti della zona non c’è bisogno di specificare altro).
Sarebbe piaciuta questa storia di un Sand Creek gallurese a Fabrizio De Andrè, che ai piedi del Limbara trovò la sua seconda patria.
Salutiamo così il rinverdire, in chiave sarda di un genere che ha fatto la fortuna del cinema italiano anni ’60 e ’70.
Lunga vita al Malloreddus Western!!!!