Roma, 14 luglio 2019
E’ una coincidenza strana, paradossale, che il centesimo anniversario dalla nascita di Lino Ventura, grande attore italiano, si configuri nel giorno della festa nazionale di Francia ricordando la presa della Bastiglia.
Strana coincidenza perché Ventura, all’anagrafe Angiolino, Giuseppe, Pasquale, “Lino”, italiano fino al midollo, fu snobbato dalla nostra cinematografia, dai nostri media, mentre invece fu adottato dai francesi che lo consacrarono, in un sondaggio del 1987, come l’attore più amato da sempre; un immigrato italiano in luogo di mostri sacri come Jean Gabin, Alain Delon, Jean Paul Belmondo.
I nostri cugini d’oltralpe gli hanno anche dedicato “Place Lino Ventura” a Parigi in una delle venti circoscrizioni della capitale, mentre da noi risulta quasi sconosciuto complice anche una colpevole programmazione televisiva che non lo ricorda mai.
Abbandonato dal padre emigra in Francia, dalla natia Parma insieme alla madre, a soli otto anni e si forma il carattere crescendo in un ambiente difficile per uno straniero, per di più italiano. Malinconico ma non triste, si affrancò dall’indigenza e dalla pratica di umili lavori anche grazie allo sport diventando campione europeo di lotta libera a 31 anni fino all’inaspettato debutto cinematografico a 34 anni in “Grisbì”, come antagonista del grande Jean Gabin.
Iniziò così un percorso di ruoli da gangster o poliziotto che poi sono stati l’equivoco di un’ottusa critica nostrana a dispetto di quella francese che ancora oggi, nelle riproposizioni dei suoi film in televisione, lo valorizza con indici d’ascolto eccellenti.
Ventura fu capace di rinnovarsi nella sua carriera non disdegnando anche la commedia divertente come “L’avventura è l’avventura” di Lelouch del ’72 dove insieme ad altri quattro amici è protagonista di episodi surreali come il rapimento del Papa o il dirottamento di un aereo in Africa, come grande fu la sua prestazione in un ruolo altamente drammatico ne “I Miserabili”, del regista Robert Hossein del ’82, dove interpretò il forzato evaso Jean Valjean, una parte che Ventura sentì molto vicino alla sua natura di tutti i giorni.
Settantaquattro le pellicole girate dal nostro con l’eterno doppiaggio italiano come se fosse considerato un attore straniero, con l’eccezione del capolavoro di Francesco Rosi “Cadaveri eccellenti” del ’76, da un romanzo di Leonardo Sciascia, dove interpretò l’ispettore Amerigo Rogas con la propria voce. La prova di Ventura fu di grande spessore ed in buona compagnia con altri grandi attori e diede all’artista la consapevolezza di saper e poter scegliere i ruoli che più lo soddisfacevano.
In quest’ottica significativa la scelta e la conseguente accettazione del ruolo del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa nel film del ’84 “Cento giorni a Palermo”, ruolo perfezionato con la lettura delle cronache del periodo e con la conoscenza, la testimonianza ed il placet della famiglia del generale.
Tutta la carriera di Ventura fu conforme alla sua vera natura di personaggio perfezionista, leale, poco incline al compromesso, rispettoso del suo pubblico, rifiutando per questi motivi di girare film, anche con grandi registi, che non lo convincevano. L’amico Alain Delon, a ridosso della sua scomparsa nell’ottobre del ’87, disse di non aver mai incontrato un interprete tanto spontaneo, dove il primo ciak era sempre buono.
Singolare il rifiuto dell’attore di baciare le sue compagne nella finzione cinematografica e a dire che ne ha avute tante, su tutte la mitica Brigitte Bardot. Un uomo dal grande pudore innamoratissimo di sua moglie Odette, conosciuta all’età di sedici anni, unica fiamma della sua vita, come pure grande lealtà e sincera dedizione Ventura la riservò alla sua amata Italia, rifiutando a più riprese la cittadinanza francese.
Oltre all’amore ed alla devozione nei confronti della moglie Odette, Ventura è stato anche padre di quattro figli fra cui Linda, malata di autismo, per la quale, ma non solo, creò nel ’66 il progetto umanitario “Perce-Neige”, in italiano bucaneve, in aiuto a bambini portatori di handicap ed al sostegno delle loro famiglie. Con il suo patrimonio diede vita ad istituti di ricerca medica e l’associazione, dopo la sua dipartita, divenne Fondazione.
Anche per questo andrebbe ricordato, proponendo nella nostra televisione il suo cinema, la sua bravura, la sua umanità.