La Roma di Borromini fra pini e fontane
Accademia Nazionale di Santa Cecilia – La X° Sinfonia di Sir Peter Maxwell Davies
Roma, 28 giugno – Come sempre, quando presenta un pezzo di musica contemporanea, Sir Antonio Pappano si rivolge cortesemente al pubblico della Sala Grande del Parco della Musica, a fornire piccole delucidazioni, poche battute di introduzione che valgono a concentrare l’attenzione e a creare un ascolto empatico. Non diversamente per questo emozionante concerto, che battezza la stagione estiva dell’Accademia di Santa Cecilia, dal titolo complessivo “Roma !”. Semplicemente. E, per cominciare, con Roma c’è Francesco Borromini che la interpreta con la pietra, con la luce raccolta e convogliata nelle squisita solennità delle sue opere che vogliono rispettare la tradizione innovandola. Sir Antonio esordisce sottolineando come la tradizione compositiva blocchi sul nove il numero delle Sinfonie, tante quante ne aveva composto Beethoven, numero/colonna d’Ercole: impossibile sfuggire alla regola; ci hanno provato molti compositori, inutilmente. Peter Maxwell Davies, classe 1934, entusiasmo ed energia intellettuale appena maggiorenni, scrive la sua X° Sinfonia e la intitola come una musica a programma “Alla ricerca di Borromini”.
L’opera nasce come commissione della London Symphony Orchestra con il supporto di UBS/UBS Soundscapes, dell’Orchestra e del Coro dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia e della Tchiakovsky Symphony Orchestra, e arriva per la prima volta nel nostro Paese, dopo essere stata battezzata alla Barbican Hall di Londra proprio da Antonio Pappano il 2 febbraio 2014. E’ un tributo all’Italia, emblematizzata nella figura del celebre architetto, di cui Maxwell ammira il “sorprendente effetto ottico con cui riesce a dare l’illusione che spazi piccoli sembrino molto più grandi”. Il riferimento a San Carlino è perfettamente congruo. Costruita come un pezzo teatrale, la Sinfonia consta di quattro parti che vengono proposte senza soluzione di continuità, la prima e la terza strumentali, le altre due con coro, e la voce baritonale(Markus Butter), solista che rappresenta lo stesso Borromini.
Un ritratto d’artista, e di uomo che aveva conosciuto varie facce della sofferenza di vivere, la continua e mortificante concorrenza con il potente Bernini, la lotta con detrattori, qui rappresentati dal Coro dei “cattivi”, ma anche la sua capacità visionaria che coniugava in un abbraccio inscindibile il cuore e il cervello, la creazione frutto di una intensità e profondità emozionali e i principi matematici della scienza. La vita di quest’uomo tipico esponente della cultura italiana dell’epoca diventa parte integrante della struttura della X° Sinfonia, dove avviene una traslazione da un linguaggio all’altro, da un’arte all’altra, in una continua volontà di sublimare i motivi d’ispirazione, per non perdere le reciproche specificità. La presenza di molti scritti dello stesso Borromini, degli infamanti coretti sulle sue qualità professionali che circolavano allora per Roma, le ultime parole dettate dal maestro al suo domestico dopo aver tentato il suicidio, lasciandosi trafiggere dalla sua stessa spada, che gli avrebbe assicurato la morte dopo due giorni di disperante agonia, si incanalano nella composizione in un happy end, che sorvola liberatosi dalle scorie dei sentimenti umani le opere dell’artista: Sant’Ivo alla Sapienza, San Giovanni in Laterano, San Filippo Neri, San Carlino. La composizione segue un percorso ispirativo ben preciso. Inizia con una sorta di simbolica rappresentazione attraverso il linguaggio della musica di una chiesa borrominiana, del tipo di emozioni che suscitava un’opera dell’artista, il suo essere innovativo e fuori dai contesti temporali che scandalizzava molti suoi contemporanei, i sonetti composti contro di lui, che arrivavano a paragonarlo ad un manovale, malgrado la perfetta armonia delle proporzioni delle sue costruzioni, indice certo di una grande maestria nell’arte. Il racconto musicale si fa più frenetico, aizzato dalle percussioni, per poi scivolare nella disperazione e nei tormenti del fine vita di Francesco Borromini, vita intristita dalle difficoltà, dalle incomprensioni, ripresa drammaticamente in musica, ma risolta poi nell’elencazione delle opere che gli sono sopravvissute e lo schierano nell’universo dei grandi uomini che fanno del nostro Paese un unicum mondiale. Accolta con molto successo, la X° Sinfonia ha lasciato spazi nella seconda parte del programma a due dei celebri poemi sinfonici di Ottorino Respighi: Le Fontane di Roma e i Pini di Roma. Opere che il Maestro Pappano ha registrato proprio con l’Orchestra di Santa Cecilia firmando una delle più belle interpretazioni esistenti in commercio. Le Fontane raccontano la città in un percorso spazio/temporale ben preciso. All’alba si possono individuare nei suoni della “Fontana di Valle Giulia”, le greggi di pecorelle che passano e si dileguano in un’atmosfera bucolica e pastorale: gli archi in sordina accendono la solitudine chiaroscurale delle prime luci.
Ma il tempo fugge, squilli poderosi svegliano le frotte di naiadi e tritoni che si inseguono fra gli spruzzi d’acqua della “Fontana del Tritone”, mentre la città già sveglia ed operosa si annunzia assieme alle divinità marine in consesso. Intanto, l’ora è trascolorata, il caldo meriggio abbraccia solennemente Roma. Un suono di fanfare annunzia nella “Fontana di Trevi” il passaggio del carro di Nettuno tirato da cavalli marini e seguito da un corteo ebbro di suoni, di sirene e di tritoni, allora la città mescola in un comune calderone la sua vitalità quotidiana con l’irrealtà incommensurabile del mito; le volute barocche, i getti, gli zampilli fruscianti, le cascatelle d’acqua accendono bagliori musicali nell’aria. Le ombre del crepuscolo chiamano gli animi alla nostalgia, suonano le campane un suono lontano e morente come il giorno, gli uccelli bisbigliano accomodandosi per la notte sui rami, le foglie si stirano nell’aria che rinfresca con lievi brusii, la “Fontana di Villa Medici” mormora piano il suo canto liquido mentre ammira il panorama della città che si placa.
Anche i Pini hanno il loro suono, lo stesso che regalano loro i luoghi che li accolgono, così mentre “I Pini di Villa Borghese” registrano le frotte di bambini che cantano allegre filastrocche: “Oh quante belle figlie, madama Doré”, i “Pini presso una catacomba” assumono la solennità salmodiante di un inno. Nella notte serena “I Pini del Gianicolo” ascoltano il gorgheggio dei passeri e il canto di un usignolo.
“I Pini dell’Appia Antica” registrano il passo cadenzato delle antiche coorti romane che si avviano per la Via Sacra verso i trionfi del Campidoglio per la gloria di Roma.