Roma, 23 Febbraio 2020 – Il genere cinematografico minimalista ha da tempo trovato un eccellente interprete in Gianni Di Gregorio, giunto tardivamente alla regia e alla recitazione dopo una lunga carriera da sceneggiatore. Nel filone aperto con l’opera d’esordio, il delizioso “Pranzo di Ferragosto”, si inserisce anche la sua ultima pellicola “Lontano lontano”, ancora una volta ambientata – fisicamente e metaforicamente – nella comfort zone trasteverina dell’autore.
Non è intenzione in queste poche righe ripercorrere la trama, un poco esile, attorno a cui è costruita la vicenda di tre solitari pensionati romani, due dei quali vivacchiano con le modeste entrate che la previdenza sociale gli garantisce ed il terzo si arrangia, proseguendo una vita bohemienne che lo ha portato all’età pensionabile solo dal punto di vista anagrafico, ma non contributivo.
È una storia di un’evasione, sgangheratamente progettata, verso i Paesi ritenuti paradiso fiscale per giubilati italiani, che per i tre aspiranti fuggiaschi sarebbe alternativa ad una racchia e malinconica quotidianità. “Chi parte sa da che cosa fugge, ma non sa che cosa cerca” era la citazione che Lello Arena si rivendeva in “Ricomincio da tre”.
Il cinema italiano del dopoguerra, e la commedia italiana (quella vera, tragicomica, che fiorì dalla seconda metà degli anni Cinquanta) si basava su solidi pilastri di fondazione: eccellenti sceneggiature, dialoghi perfetti, battute scientificamente calibrate, meravigliosi interpreti e un radicamento dei soggetti nella realtà quotidiana del Paese. Di Gregorio questo verbo lo conosce e lo applica.
E la sua storia di ‘tre uomini in pick-up (per non parlare del cane)’ si regge sulle ottime interpretazioni dello stesso Gianni, malinconico ex professore di latino e greco che trova conforto in molti bicchieri di bianchetto e sigarette, il Giorgetto borbottone e stramicio incarnato da Giorgio Colangeli e infine Attilio, ex bagnino reimprovvisatosi restauratore e commerciante di modernariato, a cui ha dato corpo Ennio Fantastichini, per la purtroppo ultima apparizione di un grande attore, versatile ed espressivo, a cui non è stato tributato in vita adeguato merito. Una menzione poi per il cameo di Roberto Herlitzka nel ruolo del professore-guru, con cui i tre aspiranti fuggiaschi si consultano per la scelta della meta finale, tra surreali comparazioni dei costi del paniere di beni al consumo (la birretta da 33 cl su tutti) e analisi di scenari di rischio naturale o socio-politico. Per raggiungere il proprio vate il trio di pensionati varca le proprie Colonne d’Ercole, la trasteverina Porta Settimiana, e raggiunge addirittura i Castelli romani, sull’orlo del cratere albano.
Il pregio della pellicola, al di là di alcune pecche strutturali su cui non ha importanza soffermarsi, è di mettere in luce il disagio di chi non si ritrova più nell’Italia e nella Roma di oggi, realtà arrabbiate e ostili, diffidenti e chiuse verso ciò che è diverso e estraneo. Ai tre eroi minimi della vicenda il compito di capire (e far capire) che tutto è relativo, e che anche un modesto Purgatorio, in cui si attende il nulla al Bar San Callisto, può risultare migliore dell’Inferno da cui tanti disperati, da lontano lontano, provengono.