L’archetipo del male
Roma, 24 novembre 2016 – In occasione del quattrocentesimo anniversario della morte di Shakespeare, il Teatro Quirino, presenta con la regia di Luca de Fusco uno dei capolavori della drammaturgia del Bardo, scritto fra il 1605 e il 1608: Macbeth, storia di un vassallo del re scozzese Duncan che, istigato dalla profezia di tre streghe, uccide il re e molti dei suoi fedeli nobili, spinto anche dalla brama di potere della moglie.
Macbeth è un’opera complessa, aspra, gotica, densa di più strati di significazione, nella quale il linguaggio poetico, già di per sé metaforico, acquista più che mai valore di simbolo, e si presta ad ogni lettura, inclusa quella visionaria e trascendente che si può ammirare al Quirino.
L’opera ha tre protagonista palesi, Macbeth, lady Macbeth (qui la brava Gaia Aprea) e le streghe ( gli altri personaggi sono il tessuto necessario per lo svolgersi degli eventi ), e uno segreto, occulto, il Male, con il suo carico fascinoso e misterico che nell’eroe eponimo si consuma come regicidio, il delitto che sprofonda nel baratro psichico più audace perché si ascrive tra le colpe archetipiche, essendo il re persona divina e incarnando metaforicamente la figura paterna. Inoltre, l’assassinio viene a contraddire la più antica delle convenzioni umane, la sacralità dell’ospite. Perciò Macbeth (affidato alla puntuale interpretazione di Luca Lazzareschi) vive l’assassinio come un evento interiorizzato, subendone il conseguente sfacelo morale, l’ombra cupa delle forze malefiche che operano dentro il suo animo e si proiettano drammaturgicamente nelle streghe. In questa edizione, le streghe sono tre corpi lividi, cadaverici e ambigui con i volti barbaramente maschili, animati da movenze erotiche conturbanti che si condensano in un piccolo spazio, in una danza notturna (coreografa Noa Wertheim), dietro un sipario di sottilissimi specchi (le tripoline), una cortina filiforme che accentua la dimensione onirica e visionaria del testo shakespeariano sul quale vengono proiettate immagini di scena, volute dal regista, giocando sulla commistione di elementi teatrali e cinematografici (Stanley Kubrick,cinema noir anni’40), di memorie surrealiste di pittori come Delvaux, Magritte, Dalì, di video-sonori, e di danza. Lady Macbeth, tentata dalla seduzione del potere nero, vive “esternamente” la sua dannazione. Lei, che esprime l’ambizione, la paura, il delirio, la follia, lei che ha invocato gli spiriti delle tenebre, opera espressionisticamente intingendo le mani nel sangue sparso (“Non sapevo che il vecchio avesse tanto sangue” è la celebre battuta di Shakespeare), fino al sipario della follia e del sonnambulismo, questo come prova generale di quella. Opera aspra, soffocata, cupa, raccontata da una scena (Marta Crisolini Malatesta) che la interpreta, sempre livida petrosa arcaica, con le sue porte squadrate, le pareti nere una scena piuttosto elementare, pochi praticabili, versatili ed essenziali, come è primitiva e ferrigna la vicenda di sangue narrata, come i suoi costumi (Zaira de Vincentiis), senza orpelli di sete e di velluti, pur mantenendo un’eleganza formale, che ricorda iconografie elisabettiane, con le cotte grigiastre e acciaiose dei guerrieri nel baluginare delle spade nella battaglia finale, nel cozzare dei ferri, come le sue luci, particolarmente felici nel disegno di Gigi Saccomandi, rosse dopo l’incoronazione di Macbeth, quasi a celare il sangue versato, che raccontano un sentimento di immobilità sospesa, di vuoto simbolico nella forza sconfinata e prepotente del fato, nel senso di predestinazione che incombe sull’opera tutta, dove i personaggi non sono esseri umani ma desideri ossessivi, passioni primitive, brame di potere, avidità senza limiti.
Il tutto sotto la presenza incombente notturna di una civetta in volo, di una foresta primordiale, di alcuni ambienti interni dove si svolge il banchetto di corte, mentre larve parvenze degli otto re della dinastia che credeva di aver distrutto sfilano da un futuro ineludibile agli occhi di Macbeth, mentre avvolto nel suo proprio sangue appare il fantasma di Banquo, il generale compagno di guerra e di avventure anch’egli al servizio del re di Scozia Duncan, e come lui ucciso per ambizione di potere. Visioni metafisiche che accentuano l’orrore e la desolazione e pigiano il tasto della paura che semina il delirio dei personaggi in queste immagini di Alessandro Papa, video installazioni che attualizzano la messa in scena, rendendo conto dell’universalità di Shakespeare che può essere coniugato in vari tempi mantenendo un carattere di assoluto, come assoluti e archetipici sono i sentimenti narrati.
Sul palcoscenico, con gli altri attori della compagnia dello Stabile di Napoli, Giacinto Palmarini, Fabio Cocifoglia, Paolo Serra, Paolo Cresta, Enzo Turrin, Francesca De Nicolais, Federica Sandrini, Alfonso Postiglione. Angela Pagano come voce fuori campo. Scene di, i costumi di, le luci di Gigi Saccomandi, le installazioni video di Alessandro Papa e le coreografie di Noa Wertheim. Le danzatrici del corpo di ballo della compagnia napoletana Korper.
Da una produzione del Teatro Stabile di Napoli e del Teatro Stabile di Catania.