Roma ,13 febbraio – Immersione nel sogno, nell’illusione, nelle emozioni : questa è la promessa di Moses Pendleton. La visionarietà come esperienza teatrale, la fantasia senza limitazioni logiche, il corpo come rito in divenire costante, in un processo di trasformazione che spezza le barriere fra realtà materiale e metafisica in un percorso inarrestabile e creativo. Così i Momix, la celebre compagnia di ballerini-illusionisti creata nel 1980 e da allora presente in tutto il mondo, torna con Opus Cactus, e tutta intera la sua magia per il pubblico romano nello spazio del Teatro Italia, che ospita gli spettacoli della Filarmonica dopo l’esplosione che ha distrutto alcuni piani del palazzetto e reso momentaneamente indisponibile la Sala del Teatro Olimpico.
Ad iniziare lo spettacolo ci sono loro tre, tre gauchos delle pampas venezuelane, o tre cow boy impegnati in gare di destrezza in “Daddy long leg” (papà Gambalunga, titolo di un celebre film anni’50), dedicato al produttore dei Momix Julio Alvarez, che parla con il linguaggio della trasformazione, ed è anche un campionario del loro saperci fare con bovini riottosi, con le loro evoluzioni sono irrobustite da una protesi mimetizzata che prolunga fino all’inverosimile una gamba con la quale possono creare figurazioni, appoggiarsi su di essa, fare perno, trasformarla nei fianchi opimi di un mustang, sullo sfondo ocra del deserto dell’Arizona, mentre intorno il vento racconta i suoi miti ripresi dalle voci in coro dei nativi ( gli indiani d’America, qui soprattutto, gli Hopi) e dei loro strumenti, tamburi e flauti in testa.
Poesia verde purissima è il gioco luminoso che invade il palcoscenico di salsole, grandi e piccoli arbusti rotolanti, che sono un simbolo dei deserti americani, che si alimentano dei colori di una tavolozza vivissima, con le stelle aggrappate ad un cielo blu notte. Poi è un’alba che si colora man mano e proietta la bellezza assoluta di un corpo femminile , una figura agilissima che si snoda sui propri stessi muscoli, in controluce: un quadro in movimento. Cinque danzatori, corpi di luce, sono semidei, guerrieri antichi di una mitologia affascinante e lontana.
Non c’è tempo per chiedersi alcunché, perché dal fondo del palcoscenico avanza un animale spaventoso, i suoi movimenti richiamano i pesanti varani, sauri sopravvissuti ad ere lontane, pre-umane, mostri primordiali che imitano la natura e sono corpi in movimento, come gli strani centauri-bipedi, frutto della collazione fra due ballerini che trovano equilibri nuovi nelle posizioni dei muscoli, degli arti, della testa. Il bestiario continua a mostrare le sue straordinarie creature-incubo, granchi, scorpioni, e uno straordinario serpente piumato, un re serpente, che insegue i miti del Messico più folkloristico, colorato di un rosso prepotente che un sapiente uso delle luci ( Joshua Starbuck, Mose Pendleton e Johm Finen III) rende maculato e meraviglioso: sono sei danzatori che si allungano nel loro andare spiraliforme sul palcoscenico del Teatro Italia, agitando i sonagli di una coda mostruosa. A volte totem umani si innalzano mentre i sibili del deserto si confondono con le musiche tribali e accendono di colori infuocati lo sfondo, offrendo una inedita percezione dello spazio, del tempo e del colore. E’ una continua esplorazione fra le riserve della fantasia e della creatività per indagare le capacità dei corpi di articolarsi in forme nuove, per nuove possibilità di movimento e per il miracolo di ri-creazioni espressive.
Non poteva mancare in Opus Cactus una danza del fuoco, creazione di Brian Sanders, come l’assolo di apertura, in cui un danzatore balla con il fuoco che vampeggia sui piedi. Ci sono pochi attrezzi presenti nello spettacolo articolato di Pendleton, fra questi una scultura d’acciaio di aerea leggerezza firmata da Alan Boeding, che per molte stagioni si è esibito con i Momix, che permette eleganti e possenti evoluzioni ai due ballerini/atleti che la muovono. In verità sono ben pochi gli attrezzi in scena, fra essi, due lance luminose che diventano occasioni per tenzoni medievali, o , i tre bastoni di “Pole dance”, dove Sam Beckman, Steven Marshall e Jared Wootan illustrano con tutta la loro bravura e con la forza di muscoli accesi dalla tensione una danza rituale, sulla musica mixata da Adam Plack. La leggerezza e la magia sono anche in quei grandi ventagli che di volta in volta diventano tutù, copricapi etnici, ed altro ancora.