Roma, 13 dicembre – Il muro conchiude, abbraccia, protegge, isola, separa… Quante cose suggerisce l’immagine di un muro? Tante che si finisce per non contarle più.
Il muro si può ergere, toccare, demolire o anche sola guardare, oppure fotografare come negli scatti presenti nella mostra di fotografie, dal titolo “Wallonwall. Fotografie e frontiere ai ‘margini’ della città” di Kai Wiedenhöfer., attualmente presente negli spazi del Teatro India. Si tratta di foto ‘fuori formato’ fra le più grandi frontiere esistenti al mondo, documentate nell’arco di dieci anni dal fotografo tedesco.
La mostra è organizzata dal Teatro di Roma nel foyer e nella facciata del Teatro India in occasione del debutto in prima nazionale di “Lear di Edward Bond”, diretto da Lisa Ferlazzo Natoli (in scena fino al 20 dicembre).
Gli scatti di Kai Wiedenhöfer, esposti nel 2013 sull’ala Ovest del Muro di Berlino, che cominciano a riprendere la barriera proprio nel 1989, anno della caduta del muro della città tedesca, sono aspetti in bianco e nero della vita a Potsdamer Platz, dal berretto di un gendarme, fino alle nuove barriere e ai vecchi muri che non crollano.
Queste panoramiche vogliono interrogarsi sulla funzione e sul paradosso della esistenza degli sbarramenti dopo il 1989, e diventano di viva attualità oggi che si erigono nuove barriere a difesa della ‘nostra’ Europa e il Mediterraneo diventa un fossato liquido e una tomba per troppi migranti, non tutti spinti da motivi giustificati da guerre o carestie.
Kai Wiedenhöfer racconta con le sue immagini 6386 kilometri di linee tirate nel mezzo di Bagdad e della Corea, fra Stati Uniti e Messico, linee che isolano l’enclave di Ceuta e Melilla dal Marocco, che rigano Israele e i Territori Occupati, che spaccano in due Belfast o Nicosia (Cipro). Linee che hanno diviso, fino al 1989, la Germania.
Sono inquadrature lente quelle di Wiedenhöfer in cui il presente si immobilizza come nelle fotografie di Andreas Gursky o di Bernd & Hilla Becher: lunghi istanti di posa in cui le ombre di tetti e comignoli si stagliano sul muro di Bryston Street (Belfast, 2006), le fenditure del cemento armato danno a vedere il cielo del confine (Berlino, 2009), o pacchi di provviste sfilano nei pressi della rete metallica al confine col Marocco (enclave di Ceuta e Melilla, 2009).
Muri a confronto che mostrano la loro forza simbolica, apparentemente neutre, una in fila all’altra, queste fotografie di cemento armato, lamiere, filo spinato, palizzate, reti, circuiti elettrici, cancelli, rivelano la messa in scena del potere, registrando anche quel che se ne fugge, come un albero bianco cresciuto nei bidoni nel mezzo di Nicosia (Cipro, 2012).
A srotolarsi sulla facciata del Teatro India l’infilata dei pali conficcati nel terreno per dividere il mare dalla sabbia (Tijuana, Messico-Stati Uniti, 2008), e dall’altra parte il grandangolo inquadra la prospettiva della strada murata di Baghdad (Bagdad, Shoria Market, 2012). Nel foyer del Teatro India ritroviamo le due fenditure simmetriche che si aprono sul cemento agli opposti del mondo (Gerusalemme, Ramallah Road, 2005; Ariziona San Louis 2005).
“Wallonwall. Fotografie e frontiere ai ‘margini’ della città è un progetto di arte pubblica che traccia una ‘mappa delle frontiere’ nella città di Roma che ha avuto inizio l’8 ottobre con l’esposizione di un’unica grande fotografia presso il MACRO (nell’ambito di Fotografia-Festival Internazionale di Roma), e che si irradia per il mese di dicembre al Teatro India per estendersi nel 2016 alle mura perimetrali delle carceri di Rebibbia e Regina Coeli. Ideato e curato dall’associazione culturale lacasadargilla insieme con Fotografia-Festival Internazionale di Roma, l’iniziativa si avvale della collaborazione di Teatro di Roma e del patrocinio dell’Assessorato alla Cultura e allo Sport di Roma Capitale. “Wallonwall. Fotografie e frontiere ai ‘margini’ della città” prende le mosse da Linee di Confine, un cantiere allargato che la compagnia lacasadargilla e Alessandro Ferroni, ha costruito intorno al testo teatrale Lear del drammaturgo inglese Edward Bond dove si narra del principio di potere, violenza e controllo che disegna le società contemporanee, messo in scena dalla regista Lisa Ferlazzo Natoli e rappresenta un’apertura del teatro alla città, affinché la scena e il mondo fuori – stampato in grande scala – sconfinino l’una nell’altro sotto gli occhi del cittadino-spettatore. Una mostra che ha in sé un progetto ben preciso: indicare un tracciato che apra sensibilità diverse e stimoli un senso di solidarietà maggiore nel rispetto delle intrinseche diversità e della comune umanità.