Un pubblico internazionale ha salutato il ritorno di Nabucco alle Terme di Caracalla, magnifici ruderi archeologici dai colori che il tempo ha reso caldi e assolati, così simili ai luoghi deputati per l’azione dell’opera di Verdi.
In questa produzione, allestita nel 2016 dal Teatro dell’Opera, per verità, il sole latita assieme alla luce e lo spettacolo si svolge in una monocromia grigiastra che ricorda il cemento e l’asfalto secco, ma anche i massetti rovinati delle case colpite dai colpi di mitraglia e dalle bombe, che parlano l’arabo di Aleppo, o l’afgano, o l’iracheno, o il palestinese, o qualsiasi altra lingua di ogni altrove, di quei paesi/location dovunque la furia dell’uomo si riconosce e si legittima nella distruzione.
Lo scenografo Andrea Belli non rispetta il genius loci, anzi costruisce sulle maestose rovine concrezioni di lavori in corso, con pietre accatastate color cemento che realizzano in pieno un’immagine tutta romana di un campo di prigionia, ignorando i celebrati giardini pensili di Babilonia, una fra le sette meraviglie del mondo antico, citati nel libretto fra i luoghi dell’azione.
Al regista Federico Grazzini, dunque, il compito di dipanare la complicata vicenda che mescola abilmente il senso del sacro, la blasfemia e la redenzione, l’amore della fanciulla innocente e del giovane ebreo da lei salvato, le lotte dei popoli, oppressi e oppressori, il rimpianto per la patria perduta, insomma tutti i topoi di questo tipo di melodramma che s’innerva su fatti storici.
Le indicazioni registiche si sono orientate su un’attualizzazione simbolica, travestendo un po’ di figuranti con divise più o meno militarizzanti dovute all’estro di Valeria Donata Bettella che fondono elementi antichi e moderni. Ma certo il pastrano nazi di Abigaille la quale non ha assolutamente un fisico particolarmente marziale e certe sue vesti pseudo soldatesche nonché gli stivali che marcano un passo nervosetto lungo tutto il boccascena suscitano momenti di involontaria comicità.
A dirigere Nabucco è stato chiamato Roberto Rizzi-Brignoli, un direttore che ha costruito una carriera prestigiosa collaborando anche con Riccardo Muti e che ha saputo cogliere lo specifico di questo primo Verdi, accentuando il mélo storico, cui forse avrebbe giovato di più la ricreazione di un clima da grand-opéra che la presenza dei magnifici momenti corali giustifica in pieno, ma non tralasciando di sottolineare certe sottigliezze espressive, che danno vigore all’aspetto sofferto e infelice dei personaggi.
Ad arricchire lo spettacolo erano state preparate a cura di Luca Scarzella delle proiezioni sulle due torri che fronteggiano il palcoscenico, ma il loro effetto è stato davvero poco significativo, come lo sono stati i tubi metallici inspiegabili che ingabbiano le rovine.
Il re babilonese è stato interpretato dal baritono armeno Gevorg Hakobyan, diventato un punto di riferimento per la resa artistica del personaggio. Hakobyan ha un allure eroico che gli fa designare un guerriero ammantato dell’arroganza del vincitore, ma la buona tecnica vocale e la potenza naturale di una voce ben timbrata non sempre bastano a modulare l’ampia gamma di emozioni in cui si esprime un personaggio tanto complesso, che racchiude in sé la tenerezza di un padre verso la sfortunata figlia Fenena, lo sdegno verso l’usurpatrice Abigaille, la follia blasfema che lo porta ad insultare Dio, ma anche il pentimento e il recupero della ragione.
Csilla Boross ha lavorato sul ruolo di Abigaille, sfoderando un canto a volte rabbioso, aspro mentre la potenza vocale non riesce del tutto a modulare nell’ottava inferiore, che risulta a volte un po’ sfocata, ma il suo arioso del suicidio (“Su me… morente…esamine”) il canto si distende in toni sfumati che danno la misura di quanto ancora può offrire in successive, più meditate interpretazioni del personaggio.
Erika Beretti, proviente dal progetto “fabbrica- Youngh Artist Program” del Teatro dell’Opera di Roma, nel ruolo di Fenena sperimenta una formazione che mette in risalto la sua voce morbida, l’emissione sicura pur nelle difficoltà oggettive che accompagnano le esibizioni della lirica estiva (a cominciare dai rumori ambientali, tutta la ricca fauna di uccelli, dai gabbiani alle cornacchie, elicotteri, aerei, ed altro ). Zaccaria è affidato a Riccardo Zanellato, bella voce scura e grande mestiere.
Professionale routine nel resto del cast, senza éclat. Una menzione al Coro di Roberto Gabbiani, davvero in gran forma nel “Va pensiero”, ma nessuno ha chiesto il bis.
Luci acciaiose di Alessandro Carletti.