Teatro dell’Opera – Nabucco di Verdi apre la stagione estiva a Caracalla
Unica scena a coltre grigia
Ma che bella gente che abita questo Nabucco di Verdi! A cominciare dal gran capo, l’insolente, blasfemo re Babilonese, che un fulmine (l’ira e la punizione divina? No, qui, a Caracalla, un più realistico colpo con il calcio della pistola della dura Abigaille), lo colpisce in testa levandogli la ragione e poi quando la ritrova abiura la religione della sua terra e quel vecchio idolo che fa infrangere. E Zaccaria, il gran sacerdote degli Ebrei, che diventa capopopolo, fa prigioniera la principessa assira Fenena e minaccia di accoltellarla? E lei, poverina, vinta dalla grazia e dall’amore per lo smunto Ismaele, che si converte. E che pensare di Abigaille, femmina guerriera, bramosa di potere, anzi di potere assoluto e pronta per conquistarlo ad abdicare ad ogni sentimento di pietà filiale? E che dire degli imbrogli, delle lettere di confessioni che chiariscono le reali posizioni di ognuno, che raccontano di come Abigaille sia figlia di schiava cresciuta a corte, non di stirpe reale, e che Fenena è disposta ad accettare il sacrificio fisico, e che mentre tutto sembra perduto, il re svanito si risveglia dal suo torpore e chiede perdono al Dio di Israele, riconquistando così la legittimità del suo trono? Libretto scombinato, sentimenti forti, eccessivi che riscaldano il pubblico semi agonizzante di una torrida estate romana, qui fra i ruderi maestosi di Caracalla. Eppure Nabucco fa richiamo e se si evitasse di intervenire con regie sbullonate, leggendo con più attenzione le indicazioni del libretto, potrebbe persino essere visto come un grand-opéra. E allora, avremmo ad es. la magnificenza dei Giardini di Babilonia, una delle sette meraviglie del mondo antico.
Ma l’operazione firmata dal Teatro dell’Opera a Caracalla per questo unico nuovo allestimento lirico della stagione estiva, risultando Barbiere e Madame Butterfly delle riprese, affidata alle corde del giovane Federico Grazzini è di tutt’altro spessore. Cercando di adeguarsi al sito archeologico, Grazzini ha incaricato dell’allestimento, un’unica scena, Andrea Belli, che, ricoperto tutto di una coltre grigia e anonima, ha collocato sulle rovine macerie di una imprecisata città, blocchetti di cemento come se ne trovano in ogni luogo dove si combatte e si distrugge, e ha fatto sfilare eserciti in tenuta militare con effetto che doveva essere marziale , ma che a volte rasentava il ridicolo, vuoi per il poco militaresco aspetto di certi figuranti, piccoletti che, chissà perché mi ricordavano Renato Rascel nella celebre scenetta del corazziere, vuoi perché era assai difficile individuare nella pettoruta Abigaille di Csilla Boross strizzata da un cinturone nero la diabolica e crudele creatura che impera in tutta l’opera. I costumi militarizzanti sono di Valeria Donata Bettella. Il regista ha guardato poco all’elemento umano, ma certe sue scelte, si deve dire, hanno riscontrato interesse e motivato perfettamente i momenti che andavano ad illustrare. Così era legittimo fare eseguire il coro degli ebrei, il celebrato “Va pensiero” dai cantanti che indossano tute di detenzione, collocati dietro una rete di recinzione che ricordava i lager. Si stabiliva così una cesura netta fra oppressi e oppressori che è poi la chiave di lettura del regista. E indubbiamente risulta efficace l’effetto dei torrioni del sito ingabbiati da strutture metalliche proiettate che potevano avere riferimento proprio alle torri di guardia dei gulag.
Le luci acciaiose sono curate da Alessandro Carletti con effetto-personaggio,alla prima dell’opera, mentre spesso incomprensibili e inutili sono apparse le proiezioni accese da Luca Scarzella.
Ma l’opera si esprime nelle voci. Ebbene, se si esclude il magnifico coro educato da Roberto Gabbiani, che ha ottenuto l’effetto di emozionare soprattutto nel “Va pensiero”, un’indisposizione dell’atteso Luca Salsi ben incamminato sulla via del divismo mondiale ha impedito di ascoltare il suo Nabucco ormai diventato celeberrimo, ma ha fatto conoscere un buon interprete come Sebastian Catana, già scritturato per il secondo cast, una bella e calda voce baritonale rumena, cui non fa difetto la padronanza della zona acuta e una capacità interpretativa a livello vocale oltre che fisico. La migliore in scena è stata certamente Alisa Kolosova, la sua voce morbida, una buona gestione degli acuti e una discreta eleganza, incolore l’Ismaele di Antonio Corianò, scialbo personaggio che la regia di Grazzini non premia certo. Zaccaria del basso Vitalij Kowaljow emette suoni gutturali e, contraddicendo la sua specificità, mostra debolezza nel registro basso. E , dulcis in fundo, ma non da temere sconvolgimenti glicemici, l’Abigaille di Csilla Boross, che giocava su un canto di forza quale compete ad un soprano drammatico, ma qui sovente con molti problemi che si presentavano come genietti maligni sia quando la sua voce si lasciva scivolare sull’ottava inferiore rendendo inudibili le sue note, sia nel registro più acuto quando il canto diventa strillo un po’ isterico. La regia musicale del direttore americano John Fiore è routiniere.