Brancaccino – Cristian Ruiz in Neurosi delle 7,47

Un uomo a nudo

Roma, 16 aprile – Il palcoscenico nero nel buio. Si intravedono sei grossi cubi bianchi e su due di essi, appollaiato, c’è un uomo nudo. E’ l’inizio di un monologo dalle forti tinte, alienante ma stranamente pieno di fascino e di appeal, che per un’ora circa tende a manipolare l’attenzione di chi ascolta, a suscitare curiosità, a sviluppare il bisogno di capire.

Chi è, innanzitutto, questo essere farneticante che emerge dal buio? Qual è la sua storia? Quel che è certo e incontrovertibile è che ci troviamo al Brancaccino, spazio teatrale insolito a mezzo cielo accanto al più grande Brancaccio. E’ certo anche davanti a noi si sta svolgendo un dramma e poco importa sul momento sapere che l’autore è Ennio Speranza, Il poliedrico Ennio Speranza. Siamo nel pieno dominio del flashback e quell’uomo nudo con il suo parlare concitato e bulimico è pronto a narrarci una storia, seguendo le linee guida di un regista intelligente e creativo che è anche autore, Massimo Natale.

Quel che salta agli occhi è che quell’uomo, anzi quell’attore è Cristian Ruiz, e che è arrabbiato e cova un bisogno quasi morboso di farci ascoltare la sua versione, impossibilitato a frenare lo sfogo disperato. In un teatro di parola, come questo “Neurosi delle 7,47”, il profluvio incessante e grottesco di deliri verbali diventa una cifra espressiva e drammaturgica. Perché la parola è una entità malata.  E allora è difficile capire se quello che viene sciorinato è il racconto di fatti avvenuti, di costruzioni immaginifiche, di allucinazione nevrotica, seppure tutto è doveroso sia circoscritto nell’ambito di una rappresentazione. Ma c’è una forte esposizione di dolore psicologico in questo personaggio, una delusione umana profonda e consapevole dell’inutilità della sofferenza e narrandola è come se quest’uomo, che lentamente si va rivestendo fino ad indossare un anonimo completo grigio con giacca e cravatta, la estraesse da sé, regalandole vita autonoma.

Siamo nell’ambito del cosiddetto in-yer-face theatre, quel teatro che ha avuto il proprio guru in Edward Bond, che ha decretato il successo di una scrittrice maledetta come Sarah Kane, drammaturga fissa della compagnia teatrale itinerante inglese Paines Plough, morta suicida, che si riallaccia alla lontana a Beckett e a Bűchner , l’autore del Woyzeck.

In Neurosi delle 7,47, l’uomo si dice in attesa di un autobus che non passa e intanto va dipanando la sua trama, dove è indiscusso protagonista. A poco a poco apprendiamo che lavora, un lavoro alienante, che ha conosciuto una donna e che poi ha dovuto accettare l’attaccamento del piccolo figlio di lei, che lui non sa e non può amare, come non ama il suo stesso fratello. Apprendiamo anche che ha avuto un incidente d’auto, che la sua vettura si è accartocciata e una ruota si è spostata dal suo asse, forse uno scontro con un altro veicolo che procedeva in senso inverso e così ha dovuto rinunziare ad incontrare la giovane prostituta biondina, ucraina o russa, che si era messo in testa di voler conoscere.

Con lui apprendiamo le tappe di un parossismo che raggiunge il suo apice, che tutto ingloba, persino il delitto. Bravissimo Cristian Ruiz a caricarsi delle violente emozioni del personaggio, lui che ha dato tante prove positive in spettacoli certo meno invasivi emotivamente, come molti musical di successo.

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