Respighi e Skrjabin, due compositori della medesima generazione, i favolosi anni ’80 dell’Ottocento, due modi di concepire il messaggio musicale, due stili a confronto. Ottorino Respighi, bolognese, celebre per i poemi sinfonici dedicati a Roma, dai “Pini”, alle “Fontane”, alle “Feste Romane”, qui con il “Concerto Gregoriano”, l’altro il russo Skrjabin, nella sua giovanile Sinfonia n.1 dallo stile tardo-romantico che si protende a costruire un ponte ideale fra Sinfonia e Cantata, sull’onda delle suggestioni della Nona di Beethoven.
Ambedue presenti in questo programma che l’Accademia di Santa Cecilia offre al pubblico, risvegliando l’interesse dei più perché si tratta di brani assenti dal cartellone romano da quasi cinquant’anni, rispettivamente dal 1971 e dal 1969.
Il “Concerto Gregoriano” può essere letto come una “lunga preghiera in stile responsoriale dove il recitante (il violino solista) dialoga con i fedeli (l’orchestra)”. Determinante è perciò l’apporto del solista, qui la ben collaudata giapponese Sayaka Shoji, al quale è prescritto di giocare sui registri più gravi e di evitare qualsivoglia tentazione virtuosistica onde creare quel particolare clima intenso e mistico in perfetta armonia con l’orchestra che ha ruolo di protagonista, qui diretta elegantemente da M° Gianandrea Noseda. Eseguito per la prima volta nel febbraio del 1922, all’Augusteo di Roma, il “Concerto Gregoriano” non ebbe felice accoglienza, con notevole delusione del compositore che lo considerava una delle sue opere migliori, dove era possibile apprezzare i delicati intrecci contrappuntistici, e comunque quella che gli permetteva di svincolarsi dal post romanticismo e dalle strettoie straussiane. L’interesse per il canto gregoriano si era destato in Respighi già verso il 1919, quando durante una vacanza a Capri aveva composto “Tre preludi sopra melodie gregoriane”, per pianoforte e, nel tempo avrebbe prodotto altre composizioni. Il fascino dei canti gregoriani era comune ad altri coevi compositori come Ildebrando Pizzetti, Gianfrancesco Malipiero, e Alfredo Casella. Durante tutto l’Ottocento si era assistito allo strapotere dell’opera lirica, che aveva avuto conseguenza persino nella scelta delle musiche per le funzioni religiose, mentre cominciavano a diffondersi fenomeni di “divismo” con organisti diventati dei virtuosi. La voglia di ritorno alle modalità del canto antico si collegò dapprima con il “movimento ceciliano” che si rifaceva al lavoro di conservazione e di custodia operato dai monaci benedettini dell’abbazia di Solesmes in Francia che si battevano per ripristinarlo. Molti compositori dell’epoca, fra cui Don Lorenzo Perosi e il futuro Pio X nel 1903 con il suo “Motu Proprio” appoggiarono questa istanza restauratrice, riaprendo la via al canto gregoriano.
Composta nel 1901, la Sinfonia n.1 di Skrjabin, in sei movimenti, e non nei consueti quattro, ha il Finale che, a differenza dell’Inno alla Gioia della IX Sinfonia di Beethoven, al quale pure si richiama, è dedicato al potere dell’arte. Un’istanza anche ideologica ed estetica per chi come lui, alla ricerca di un assoluto, tendeva a produrre un’arte totale, che unisse insieme “lo stormire degli alberi, il brillio delle stelle, i colori dell’aurora e del tramonto”. Era un modo per infrangere i confini del suono, in un momento in cui molti artisti obbedivano ad una stessa ispirazione estetica. E certo Skrjabin dovette essere influenzato dal milieu europeo sia dai movimenti simbolisti che facevano capo al poeta e drammaturgo Alexander Blok e a Frederich Nietzsche con la sua “Nascita della tragedia” sia dal conterraneo Kandinskij, che con ‘Der gelbe Klang’ lavorava ad una forma di teatro totale che fosse il connubio di musica e colore. Nel contempo, Arnold Schoenberg si impegnava nella composizione di ‘Die glückliche Hand’, nella quale esplorava il rapporto tra musica e immagine. Questa ricca farcitura di apporti è presente in quest’opera giovanile dove predomina un cromatismo accentuato con ricordi del ‘Tristano’ e dell’’Anello’ di Wagner e una ricchezza tematica che ha chiare ascendenze impressioniste, con improvvisi echi dell’epigonismo ciaikovskiano. A dar conto della complessità del lavoro, di questo crogiuolo dove si fondono insieme molte istanze artistiche dei primi del Novecento, a Santa Cecilia è riuscita perfettamente la direzione impeccabile di Gianandrea Noseda e le risposte certe di un’orchestra con gli strumenti spinti fino ai limiti delle loro possibilità.
Nel Finale, davvero magnifico il Coro di Ciro Visco e i soliti, Anna Maria Chiuri, mezzosoprano e Sergey Radchenko, tenore.