Roma, 11 dicembre – Un cofanetto ben confezionato, attualissimo in un periodo di strenne, un’edizione de “Il Marchese del Grillo” che scivola assolutamente indolore dal grande schermo e dalla immensa figura di Alberto Sordi sul palcoscenico de Il Sistina, amorevolmente sorretta da Massimo Romeo Piparo, regista geniale che sceglie un attore amatissimo, romano che più romano non si può, come Enrico Montesano come protagonista.
Non era un’operazione semplice, e ci voleva una notevole dose di coraggio a riprendere una figura storica, come quella di Onofrio del Grillo, il crudele e arrogante aristocratico vicino al soglio pontificio – è guardia nobile dello stato papale -, figlio di un epoca, gli inizi del XIX° secolo, già raccontata dal mago della commedia italiana Mario Monicelli, con l’ausilio di sceneggiatori come Piero De Bernardi,Tullio Pinelli, Leonardo Benvenuti e Bernardino Zapponi, e trasferirlo tout court. Bisognava innanzitutto tener conto dei differenti linguaggi del cinema e del teatro, specialmente del teatro musicale.
Lo ha fatto con successo Massimo Romeo Piparo che con lo stesso Enrico Montesano e Gianni Clementi ha provveduto a dar vita alla commedia musicale che oggi viene applaudita. Bisognava anche rispettare, in qualche modo, le antitetiche personalità di Sordi e Montesano, l’uno sprezzante e cinico, di una crudeltà raffinata, solo temperata da una forma di generosità aristocratica, l’altro più vicino al popolo, con maggiore bonomia, cattivo più che crudele, ma accomunati i due, oltre che dalla romanità, dalla voglia di calarsi nella volgare e sanguigna realtà del popolino con il suo parlar grasso, sboccato, con certi vezzi da crapula, certe immersioni negli ambienti più rozzi, come nelle cucine delle bettole dove era possibile mangiare pajate e altre leccornie.
Enrico Montesano confessa: “ Mi sono avvicinato con rispetto e umiltà a questo personaggio”, e aggiunge:”Certo la famosa frase c’è, quella che citando Gioacchino Belli, dice “Ah… me dispiace. Ma io so io… e voi non siete un c…” la pronuncio perché è nel testo, ma non lo dico molto volentieri”.
In realtà, man mano che lo spettacolo avanza, con le scenette che illustrano un’antologia di episodi che ritraggono la vita di un satiro di primo Ottocento perfettamente consapevole delle storture della società classista, un satiro che racconta parossisticamente un’italianità arrogante, gaudente, sorniona, raccordati da fresche musichette orecchiabili, composte da Emanuele Friello nel rispetto della narrazione, dai cori di bravi cantanti/ballerini (coreografie con vezzi acrobatici di Roberto Croce) che raccordano gli sprazzi di vita del personaggio, Onofrio del Grillo diventa una maschera più che personaggio storico. Come Rugantino, come Il Conte Tacchia, acquistando su di sé i connotati dell’immortalità.
Come maschera, Onofrio del Grillo può essere indossato da qualsiasi attore ne possa riprodurre il senso profondo che è quello di un uomo degli inizi dell’800 che vive nell’asfittico mondo retto dalla Curia, in una Roma minacciata dalle campagne napoleoniche, fra cardinali corrotti, un papa come Pio VII che ha potere assoluto, un boia che misura spesso la corda per i suoi assistiti. E smania per un mondo altro, una Parigi che conosce i piaceri di corte, con Napoleone, che ha svegliato più o meno vaghi istinti di libertà, con le donnine che cantano nei teatri e rubano le scene ai castrati. Parigi, faro di delizie e di piaceri proibiti nella miope realtà papalina; Parigi vissuta come irrealtà e sogno, per sfuggire ad una soffocante famiglia all’insegna del bigottismo, con l’ombra della beata Quartina, nume tutelare. Impossibile rinunziare a Roma, vecchia e rapinosa seduttrice assisa nel proprio incommensurabile e eterno languore, dove Onofrio apre gliocchi al mattino, tardi, nel silenzio dei servi del palazzo e subito è pronto ad organizzare i suoi scherzi crudeli, ad inventarsi sempre nuovo nelle burle, a portare le terga nelle più infime bische clandestine, nei tuguri dove giovani amanti, come la bella Faustina (Gloria Rossi), pagate profumatamente, d’improvviso scelgono l’amore al benessere del ricco protettore, Goliardia e ponderatezza strettamente avvinte.
E, per raccontare in modo appropriato tutto ciò bisognava modulare in una versione nuova quella materia che si era spalmata come una seconda pelle su Sordi nel film di Monicelli, e mettersi in gioco in una nuova interpretazione.
Qui è esplosa la bravura e la sensibilità di Piparo, che ha preso in carico Montesano con le sue caratteristiche comiche e lungi dall’adattare sulle specificità dell’ attore il personaggio, gli chiede di ospitarlo nel suo corpo, prestandogli voce e forza comica, perché esso viva in sé compiuto con le sue volgarità, le sue prevaricazioni, le generosità, il piacere per lo sberleffo e la risata, ma anche con quell’allure nobile che gli permette con rapide sterzate di tornare a far parte dell’affresco aristocratico sul quale la storia lo ha messo.
Sfruttando al massimo le possibilità tecniche del palcoscenico del Sistina, l’allestimento riserva continue sorprese e cambi di scena, è un allestimento dinamico che rende ancor più divertente e appetibile lo spettacolo che si avvale delle scene allegre e coloratissime di una Roma d’antàn che ricorda le vecchie stampe, create da Teresa Caruso, con il cast vestito come da tradizione da Cecilia Betona, che per Montesano ha creato costumi assai preziosi.
A fare da cornice a Montesano, bravissimi attori come il servitore “Ricciotto”, Giorgio Gobbi, che lo aveva interpretato anche nell’edizione cinematografica del 1981.
Fra gli altri, tutti davvero ben amalgamati, si distinguono Sebastiano Lo casto, una divertente “Streghetta”, “Genuflessa”, la cugina vogliosa, indossata da Ilaria Fioravanti, e Olimpia che ha la bellezza in fiore di Benedetta Valanzano. C’è poi lo stesso figlio di Montesano, Michele Enrico, a dar vita al personaggio del Capitano francese “Blanchard”.