Roma, 23 marzo – Silenzio e urlo, dinamismo e immobilità, onirismo e realismo, mitologia e simbolismo, in un gioco inesausto di ossimori che si rincorrono: siamo in un dominio d’arte che non si lascia circoscrivere, che taglia i possibili limiti di un linguaggio e diventa dipinto su tela, soggetto per un rarissimo e perduto film svedese, poema sinfonico denso e profondamente arricchito da una serie di apporti provenienti da momenti espressivi diversi (basti ricordare Rachmaninov e Reger e poi tanti epigoni successivi). Alla base c’è un capolavoro che si tinge, correndo i decenni, di tinte sempre più misteriose e oscure, “L’Isola dei morti” di Arnold Böcklin del 1882, contaminazione di sogno e realtà. Ovvero, proiezione dell’inconscio quando vuole rappresentarsi l’Oltre, il viaggio e l’approdo. L’orizzonte è un paesaggio tetro, buio, terrificante con le cime aguzze dei cipressi che bucano un cielo corrusco e quei sepolcri statici e come abbandonati al silenzio. Qui non ti aspetti il canto di un uccello. In questo nulla classico che ricorda gli antichi maestri paesaggisti italiani, o anche i secentisti Lorrain e Poussin, ma potrebbe essere una trasfigurazione dell’Isola montenegrina di San Giorgio, che viene chiamata proprio “Isola dei Morti”, o uno scorcio di Ischia, o il cimitero inglese fiorentino, oppure la memoria di tutti questi luoghi fusi insieme, una barca va condotta da uno psicopompo, un traghettatore di anime, il dantesco “Caron dimonio dagli occhi di bragia”, o qualunque altro personaggio che sappia spalmarsi addosso la propria mitologia. E allora quell’acqua nera che si lascia appena penetrare dal remo potrebbe essere lo Stige o l’Acheronte, e la barca conduce il suo bottino, un’anima in attitudine penitente, velata, che porta con sé la propria bara bianca bordata di fregi. Questo mirabile quadro ebbe tanto successo e rinomanza che ne furono riprodotte cinque versioni per accontentare le richieste di illustri personalità dell’epoca. Freud, Strindberg, Lenin, D’Annunzio, il celebre occultista Svedenborg ne furono profondamente ispirati. Hitler acquistò la terza versione della tela, facendola istallare al Berghof, poi Obersalzberg e dal 1940 in poi alla Cancelleria del III° Reich. Doveva costituire il nucleo di una galleria di opere da lasciare ai posteri.
Quest’opera conduce per mano attraverso i meandri delle emozioni che sa suscitare anche Sergej Rachmaninov che compone l’ omonimo capolavoro(opus 29, nel 1907/8), una pagina di alto sinfonismo che rispecchia naturalmente in modo simbolico ed allegorico le atmosfere richiamate dal quadro e sa trovare una densità cromatica che tinge di colori severi fin dall’inizio la composizione nella quale sembra di sentire quel remo che attinge l’acqua scura negli strumenti cui è affidato il racconto, gli archi solenni, il clarinetto basso, gli ostinati dell’arpa, i corni e i timpani. Come un momento di esitazione quando ancora i giochi del vivere non si sono completati è la memoria trasparente del Dies Irae gregoriano, un tema più volte usato dal maestro russo. Nel Poema non manca un ricordo illeggiadrito e gioioso della vita appena lasciata.
Bisogna rimarcare la qualità altissima raggiunta dall’Orchestra dell’Accademia di Santa Cecilia con la direzione intensa, ipnotica e impeccabile di Sir Antonio Pappano che può offrire simili interpretazioni cariche di emozioni e suggestioni. Nello stesso programma il Primo Concerto per pianoforte e orchestra, opus 1, scritto nel 1891 dal diciottenne Rachmaninov. In esso , naturalmente si avvertono come omaggi o citazioni musicali memorie di compositori assai congeniali al giovanissimo Sergej,come ad esempio Ciaikovskij. La composizione, in verità, ebbe una genesi assai travagliata e seguì il musicista nel suo espatrio nel 1917 a New York dove fu ampiamente rimaneggiata ed eseguita il 29 gennaio 1919. A proporlo sulla tastiera Alexander Romanovsky, collaudato anche se giovane pianista cui non manca una grande attitudine virtuosistica, indispensabile per un lavoro di grandissima difficoltà tecnica come questo.
Nella seconda parte del programma, in occasione della commemorazione dei 150 anni dalla nascita, Pappano ha diretto la Sinfonia n.2 in re maggiore op.43 di Jean Sibelius, autore per troppo tempo lasciato in disparte (l’ultima volta a Santa Cecilia fu Jeffrey Tate a proporre la Seconda Sinfonia nel 2001). L’opera che presenta pregevoli momenti musicali e pagine che rispecchiano la tradizione romantica suscita sempre grandi apprezzamenti.