Roma, 17 luglio – “Dammi mille baci, e poi cento/ Poi altri mille, poi ancora cento,/poi mille di seguito, e poi cento./Poi, quando ne avremmo raggiunto/ molte migliaia, li rimescoleremo, per non sapere/ quanti sono…” implora Catullo nel suo proclama all’amore, l’unico antidoto alla vecchiaia, agli acciacchi, alle amarezze della vita.
Tema ricorrente, privilegiato dalla sua inconfutabile visione del mondo, che si può coniugare nel modo più vario e che correndo a volo rasente lungi i secoli approda oggi su un compositore come Nicola Piovani, vanto del nostro modo di rappresentare la musica, premio Oscar per “La vita è bella”.
Così, in prima esecuzione mondiale, nella Cavea del Parco della Musica, alla presenza dello stesso compositore e di amici a lui molto cari, come Roberto Benigni e la moglie, l’Accademia Nazionale di Santa Cecilia ha offerto al pubblico romano il suo “Carme” quinto catulliano, una partitura commissionata dal sovrintendente Dall’Ongaro, per cinque strumenti e percussioni e soprattutto per il Coro, cui è massicciamente affidato il compito di filare note, sotto le valenti cure di Ciro Visco. A lui, è affidata per intero, questa sonorità che si nutre dell’eleganza della metrica latina, questi versi ricchi di fascino, che sono la memoria scolastica di molti di noi, ma che qui, su questo palcoscenico estivo, per verità un po’ penalizzato dall’acustica e dalle interferenze esterne (civette & company, aerei ammiccanti e rombanti) riescono tuttavia a coinvolgere ed emozionare.
Del resto, lo afferma lo stesso compositore, lodandone il notevole livello non solo tecnico: “Ho assistito a una prova del Coro dell’Accademia di Santa Cecilia di Carme, e sono rimasto particolarmente incantato dalla musicalità degli esecutori. Mi riferisco a quella straordinaria capacità di coniugare l’infallibile precisione nel leggere la partitura con la cantabilità espressiva”. Con i timpani di Antonio Catone, che da poco fa parte della formazione ceciliana, in aggiunta al gruppo di percussionisti, ai pianisti e alla suadente ed erotizzante tromba di Andrea Lucchi, le note hanno preso consistenza, l’evocazione della gioia dei sensi ha completato il suo percorso musicale rendendo appieno la bellezza dei versi e ponendosi come un ponte lanciato verso il mondo profano dei Carmina Burana e dei clerici vagantes, i goliardi che avevano scoperto i patti di Schengen ante-litteram, vagando per un’Europa senza frontiere, dove si mescolavano le lingue e i retaggi latini perdevano consistenza paludata in canti che esaltavano il vino, il libero amore, le carte. Era la fine della grande paura, era la voglia di riprendere in mano la vita e inneggiare ad essa attraverso la grande libertà che sola concede la gioventù, era la confusione dopo il caos, il sorriso risplendente dopo il tormento angoscioso, era l’addio a quella data fatidica che qualcuno aveva vaticinato come la fine della terra, ebbene sì, quell’orribile anno Mille era alle spalle con il suo nulla tenebroso e pieno di diavoloni, e tante prospettive si aprivano e su tutte dominava il sentimento della libertà e la voglia di proclamar il piacere come sovrano del mondo. Pronti a raccogliere il testimone del nuovo che avanza a gran passi, armati della spada scintillante dell’ottimismo, della giovinezza, a migliaia i clerici smaniavano per le strade e le città d’Europa, i suoi monasteri, le corti gentili e diffondevano i precetti del nuovo, in una allegra e continua contaminazione che da un lato diffondeva le lingue romanze, dall’altro dava vita ad un processo di allargamento linguistico che spezzava le barriere e sdoganava un concetto ancora in nuce di spirito europeo. Qualcuno, precisamente Johannes Andreas Schmeller nel 1847, rielabora e riunisce in una silloge, i “Carmina Burana”, appunto, un corpus di testi poetici medievali dell’IX e XII secolo prevalentemente in latino, antichi monumenti linguistici, che si erano salvati in un importante manoscritto contenuto in un codice miniato del XIII secolo, il Codex Latinus Monacensis 4550 o Codex Buranus, proveniente dal convento di Benedikben(l’antica Bura Sancti Benedicti, fondata attorno al 740 da San Bonifacio nei pressi di Bad Tölz in Baviera). Oggi, il codice è custodito nella Bayerische Staatsbibliothek di Monaco
I testi in tedesco antico, come in latino frammisto a lemmi volgari, vedono lo spirito religioso spinto al margine da istanze amorose trasgressive che esaltano il profano e licenzioso, in libera circolazione nelle nascenti università. Poi, Carl Orff, nel 1937 cercò una sonorità che “sembrasse” il più medievale possibile. Ecco quindi nati i “Carmina Burana”, scelti qui, in quest’estate del 2016 , per la stagione estiva di Santa Cecilia. Sotto l’abile guida di Ciro Visco sono stati modulati i momenti più lievi e gioiosi, con gli altri forti e quasi drammatici, l’accesa sensualità, in una continua alternanza di suoni dinamizzanti, che profumano di antico. Perché, pur essendo i Carmina un’opera prettamente “di finzione”, “à la manière de”, il prodotto finito divenne un artistico capolavoro senza tempo, che ha riscosso e continua a riscuotere ancora oggi il favore del pubblico ovunque venga proposto, con le rivisitazioni del canto gregoriano con effetto parodico, con la canzone strofica medievale, con il madrigalismo rinascimentale, con il massiccio uso delle percussioni che segnano una ritmica spesso ossessiva, che si configura a volte come un rap, con la magnifica scrittura per il canto corale, con la crudezza comica-epica del cigno allo spiedo commosso dal proprio rimpianto con le note sgargianti di un sopranista. Qui, Marco Santarelli dispiega con forza le proprie lamentazioni dopo avere lanciato in aria un pugno di piume ingrigite dal fumo. Il Coro al gran completo, rinforzato dalle voci bianche e l’ altissima qualità della loro esibizione hanno fatto del programma un vero evento che coinvolge in un unicum le voci bellissime del soprano Maria Chiara Chizzoni, dalla voce sempre morbida, anche nel momento delle più ripide scalate del pentagramma, eleganza e duttilità, del bravissimo baritono Massimo Simeoli e del già citato Marco Santarelli.