Teatro Eliseo – Sei personaggi in cerca d’autore con Gabriele Lavia
Il dramma eterno
Roma, 9 gennaio – Odi, disprezzi, sdegni, vendette in un mare diventato melma, e l’impasto di fango lievitato dalla rabbia. Questi i sentimenti espressi/urlati in una vicenda che è nello stesso tempo realtà/finzione e finzione della realtà con il vero e il verosimile che si raggrumano in personaggi vivi e completi che tuttavia non hanno ancora trovato una collocazione perché nessuno scrittore ha preso un pezzo di carta a fissarli per sempre. Così questi “Sei personaggi in cerca di autore” se ne vanno sulle scene del teatro Eliseo con il carico della loro compiuta/incompletezza a cercare almeno un regista che se li carichi addosso e dia loro l’effimera esistenza in una rappresentazione alla quale aspirano per motivare la loro nascita.
Padre, Madre, Figlio, Bambino, Bambina, Figliastra arrivano straniti e dolenti, pieni di una tensione interiore con i loro passi da marionette, soldatini in fila, stereotipi ai quali non possono ribellarsi perché pensati semplicemente così. Il padre, un borghese ultra cinquantenne ancora voglioso di saziare le esigenze della carne, sia pure consumando sesso a pagamento, ora che ha ceduto la moglie fedifraga all’amante; la Madre in gramaglie, ancorata ai propri lamenti di prefica, la Figliastra con il suo carico di rabbia e dolore, e quelle ultime tracce di un pudore straziante nelle azioni e nei sentimenti, il Figlio che si rivela nella battuta: “Quello che io provo, quello che sento, non posso e non voglio esprimerlo. Potrei al massimo confidarlo, e non vorrei neanche a me stesso”, una battuta che condensa in sé uno dei sensi dell’opera. I due bambini, infine, sui quali il dramma di incupisce nel nero assoluto della tragedia: la morte per annegamento della bimba e il suicidio del ragazzino, pronti dietro l’angolo a far l’ occhiolino.
Opera del 1921, “I Sei personaggi in cerca d’autore” di Luigi Pirandello fu un colossale fiasco al suo esordio al Teatro Valle di Roma, era un esperimento davvero complesso e sfaccettato che si muoveva in un gioco continuo di riflessione sul teatro e sulla filosofia del teatro, con la finzione della realtà che si ribalta in realtà della finzione, con il percorso circolare che va dall’attore al personaggio e poi di nuovo all’attore e lo specchio deformante tra realtà e illusione che non si può conciliare. Un esperimento di teatro nel teatro, come altri dello stesso autore.
Gabriele Lavia, che ne cura una regia estremamente dinamica che utilizza il doppio spazio del palco e della platea, si accosta al testo pirandelliano, considerato un capolavoro assoluto di tutti i tempi e culture, con cura filologica, e totale rispetto e aderenza, persino riproponendo la propria voce fuori campo che legge le didascalie scritte dal drammaturgo, e rispettoso di quell’”ospite” segreto che rende plausibile il bisogno di rappresentarsi: il pubblico. Per il quale è stato pensato, in ultima analisi, questo capolavoro dell’impossibilità e dell’incomunicabilità, dove i personaggi parlano ma non si sentono, e dove la ricerca di una comunicazione si palesa nell’incontro con gli attori e conil capocomico che si sforza di coordinarli nelle prove del “Gioco delle parti”, un’autocitazione che entra nel tessuto vivo dei “Sei personaggi”, attori incapaci di superare i limiti tassativi della loro professionalità e di indossare personaggi, già in sé compiuti. Perché essi, i personaggi, rifiutano di essere flessibili o di piegarsi ad interpretazioni. Anzi vivono secondo la ferrea legge che li obbliga ad essere identici solo a se stessi: è questo il loro tormento, questo che determina una inesausta circolarità della loro vita, che li tiene insieme proprio nella misura in cui si muove su un asse sincronico, non permettendo loro uno sviluppo sul piano di un tutto umano tempo della diacronia, del prima e del dopo, dunque della vita stessa.
Gabriele Lavia, il pittore, anima la propria tavolozza, e intinge la parte nei colori più intensi, fino a raggiungere le varietà cromatiche di un arcobaleno per rivestire il Padre, uomo maturo, borghese severo e ben pensante che può arrivare persino ad un farisaico dono di libertà alla moglie innamorata di un altro uomo e adultera, e non sfugge al bisogno di masochistica punizione del senso di colpa, che gli accende toni piagnucolanti. Lucia Lavia, la Figliastra, va su e giù dalla platea al palcoscenico come del resto l’intera compagnia, bella e arrabbiata, con grande impegno, a volte forse troppo appassionata e urlante, da apparire eccessiva. Scelte interpretative. Nel ruolo di prefica lamentosa, la madre in gramaglie cui la Nemesi ha tolto i due bambini nati dall’amore fuori vincolo legale, Rosy Bonfiglio. Assai duttile Carlo Sciaccaluga nei panni del direttore di scena. Interessanti le musiche di Giordano Corapi, mentre si fa notare la scena di Alessandro Camera, imponente e sobria, con quel senso di provvisorio che offre un palcoscenico dove sta per nascere una rappresentazione, pochi fondali, qualche paravento, due attaccapanni sui quali fanno bella mostra i cappelli delle attrici in perfetta armonia con i costumi color crema che ripropongono la moda borghese degli anni ’20, creati da Andrea Viotti.