Teatro Quirino – ‘Mr Puntila e il suo servo Matti’ di Bertold Brecht con la compagnia dell’Elfo.

(foto Laila Pozzo )

Un uomo scisso
Dr Jackyll e mr Hyde in salsa tedesca, scritta per giunta in un momento in cui il clima berlinese era avvelenato dai prodromi laceranti della disfatta, dai nuovi terrori che sarebbero subentrati presto a coprire una città sventrata e smembrata fra le potenze vincenti.  Cosa opporre allora, se non un’ironia grottesca, una rabbia graffiante, e, alla realtà divisa in zone di influenza e di potere, un uomo scisso, una sorta di antologia umana manichea bianco/nera, dove il bene si interfaccia con il male? Così torna oggi al Teatro Quirino, quasi d’attualità, la commedia ‘Mr Púntila e il suo servo Matti’, scritta nel 1940 da Bertold Brecht, durante il suo soggiorno/esilio in Finlandia, insieme all’attrice ed autrice Margarete Steffin e alla scrittrice Hella Wuolijoki, autrice di alcune novelle con protagonista il personaggio di Púntila.
L’opera, a distanza di quasi ottant’anni, ritrova un’ autenticità e una vitalità proprio in forza del tempo passato che ha ridimensionato i furori ideologici spalmando su di essi la lezione della storia.  Non è facile riproporre oggi Brecht, a meno che non si riesca a giocare con i suoi stessi codici, con l’ironia, il grottesco, il senso dell’alienazione, la malinconia, lo straniamento, tutta la tavolozza di illusioni e speranze e di provocazioni, e rispettare il clima dell’epoca, i suoi allucinati Kabarett, le sue marce cadenzate.
Effetti resi pienamente dal prestigioso Teatro dell’Elfo, immerso nella traduzione di Bruni che coglie tutte le caratteristiche originali e le “aggiorna”, le attualizza non spaventandosi di usare termini dell’eloquio quotidiano come quando Púntila dà dello stronzo al fidanzato della figlia, e la moglie del pastore lo ammonisce che “non si dice stronzo a una festa di fidanzamento”.  
Effetti che si ripresentano nella intelligente regia e le scene firmate a quattro mani dallo stesso Ferdinando Bruni, che si è riservato anche di interpretare il personaggio di Púntila, e Francesco Frongia che ha saputo dare quelle sfumature indispensabili, che ne hanno decretato il successo svelando un gusto per il paradosso che si innesta su una base di comicità gridata, giocata sulla parole, sul gesto, sul trucco espressionista. E su molto cinema d’epoca, Charlot in primis, con il suo capolavoro, ‘Luci della Città’, all’undicesimo posto nella lista dei film più belli di Hollywood. Anche qui incontriamo lo stereotipo ricco/povero, anche qui un miliardario, che l’alcool rende schizofrenico, isterico, lunatico, e gli fa offrire amicizia incondizionata a chiunque si presenti al suo cospetto, salvo poi appena sobrio riacquistare le caratteristiche di un tiranno, un possidente cinico e crudele che sfrutta tutti coloro che gli si parano intorno, arbitrario, despota o socievole a seconda dell’alcool ingerito. Così  il Púntila ciucco si muove pieno di buoni sentimenti  verso quattro stagionate ragazze del popolo consegnando ad ognuna un anello di fidanzamento e invitandole a palazzo per una sbrindellata cena dove in realtà dovrebbe essere festeggiato un altro impegno prematrimoniale, quello della figlia con un attaché.
Uno di quei matrimoni voluto dal Púntila sobrio per innalzare socialmente la casata, dove lo sposo, in questo caso il divertente Umberto Petranca, bravissimo a delineare la figura di un diplomatico squattrinato e superficiale, a caccia costante di dote, poco irresistibile ancorché nobile e elegante, certamente non potrà rendere felice Eva (Elena Russo Arman), figlia patinata di Púntila, con i capelli biondo platino e abbigliata come una diva delle ‘sophisticated comedy’ anni Trenta targate Broadway, una Jean Harlow, una Carole Lombard, da quando si  presenta in scena con un prezioso negligé, all’abito da sera bianco indossato per la cena,  anch’ella adescata dal piacere dualistico di essere “democratica” e guardare al mondo operaio e intenzionata a  scegliere Matti (Luciano Scarpa), come compagno di vita, salvo poi a scappare offesa ritrovando la propria arroganza quando l’autista le  fa una pesante carezza sul sedere. Impossibile stabilire una comunicazione e una civile convivenza fra le diverse classi sociali, sembra dire Brecht. Matti, impassibile, entra nel gioco dell’alternanza, forte della sua flemma e della saggezza acquisita, consapevole della incoerenza del suo padrone e dei ricchi in genere, del loro modo di prendersi gioco di chi ha bisogno. Sa anche che per difendere la propria libertà deve lasciare la ricca casa di Púntila. 
Lo spettacolo fin dall’inizio assume un allure popolare, con una voce narrante, rulli di tamburi, interventi live di Matteo de Mojana che presenta le ballate originali di Paul Dessau, suoni che illuminano l’apparato  scenico che si struttura su più piani, con una ambientazione rurale, animali squartati che pendono tristemente, una banconota gigantesca proiettata su una tenda a fondo palco che somiglia tanto al dollaro USA , ma è stata emessa dallo stato  di Puntiland, e scritte illuminate. Su questa scena si muovono gli azzeccati costumi di Gianluca Falaschi che enfatizzano l’ironia e gli anni bui da dopo guerra, espressione di una meditata ricerca che si riallaccia anche alla matrice cinematografica sottesa.
Lo spettacolo, pur marcato dalla presenza scenica di Bruni/Púntila, che ha una gestualità alla Charlot  e come lui indossa una marsina che fa tanto epoca, non offre allo stesso spunti mattatoriali, anzi  si configura in sua apprezzabile coralità dove tutti gli attori, non solo i già citati, recitano con briosa bravura.
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