Firenze, 2 febbraio – Sospinto da solida e più che meritata fama conseguita con “Norma” e “Sonnambula”, il giovane Bellini, da poco giunto a Parigi, stipulò nel 1833 con il Théâtre des Italiens un contratto per una nuova opera.
La scelta cadde su un soggetto tratto dal romanticismo scozzese, cui, com’è noto, in quel periodo s’ attinse a piene mani, sol che si pensi a “La Donna del lago” di Rossini ed alla “Lucia di Lammermoor” di Donizetti, ad esempio.
L’occasione fu offerta da un dramma storico, “Teste rotonde e Cavalieri” , già in scena a Parigi ed ispirato, a sua volta, ad un romanzo di Walter Scott dal titolo “I Puritani di Scozia”.
Bellini affidò al poco esperto Carlo Pepoli l’incarico di approntare il libretto, per la nuova opera che chiamò ‘I Puritani’. Nella trama si evidenziavano alcuni temi di grande impatto, come l’afflato politico, che sarà, in seguito, fatto proprio da molta propaganda risorgimentale; il tema passionale, con il tragico esito patologico della follia (che ritroveremo nella Lucia); quello etico (salvare l’innocente regina, vedova di Carlo Stuart). Il risultato, da un punto di vista strettamente letterario, non fu brillante, rivelandosi il libretto complicato e non certo all’ altezza delle deliziose melodie. L’imprinting smaccatamente romantico, tuttavia, infiammò subito Bellini che pretese un allestimento ed una direzione improntata ad una passionalità molto spinta.
L’opera andò in scena il 24 gennaio 1835 e fu subito un trionfo, grazie anche ad un cast di prim’ordine, per assurgere ben presto alla fama di capolavoro assoluto che tutti conosciamo.
L’allestimento offerto dal teatro comunale di Firenze (alla cui dirigenza va tutta la nostra gratitudine per averla inserita in cartellone) presentava, quale elemento di spicco, il soprano anglo-australiano Jessica Pratt, che ha disegnato un’Elvira quasi perfetta per intonazione, estensione, fraseggio, nobiltà d’eloquio e d’espressione. La splendida aria “Son vergin vezzosa”, risolta con sicurezza ed equilibrio, si pone ai vertici dell’ offerta attuale. Anche la regina, pur nella parte secondaria che il libretto le riserva, era degna di lode nella persona del mezzosoprano Rossana Rinaldi. L’impervio ruolo del tenore era affidato al bravo Antonino Siragusa, noto agli
appassionati rossiniani (specie del R.O.F. pesarese) che, pur dotato di ottima intonazione e grande estensione, specie nel registro acuto, non sempre riesce a salire con la necessaria gradualità. La terribile aria “A te cara amor talora” è stata affrontata con sicurezza e chiaro fraseggio, ma non ha avuto il successo sperato. Buoni pure il Sir Giorgio di Gianluca Buratto, baritono ben impostato, ed il Lord Gualtiero Valton di Gianluca Margheri.
Non ci ha, invece, convinto il Riccardo di Massimo Cavalletti, apparso non del tutto a suo agio nella tessitura, specie nella famosissima “Ah per sempre io ti perdei”.
Il discorso cambia per quanto attiene la direzione e la regia, quest’ultima affidata a Fabio Ceresa, che offre una lettura dell’opera cervellotica e decisamente disancorata dalla realtà. Egli, infatti, complice anche una scenografia cupa e mortifera, vuole affermare una sua personalissima idea della vicenda, ridotta alla sola dimensione temporale senza nessun accenno significativo allo sfondo storico e politico. Nelle note da lui stesso vergate, risulta che Arturo si allontanerebbe da Elvira “come in un viaggio astrale, al cui ritorno ella non è più”. Morta, quindi, perché impazzita, in quanto l’ attesa le sarebbe stata fatale. A Riccardo non resta che piangere “sulla sua tomba”, peraltro ben in vista sin dalla prima scena. Ecco allora che “i guerrieri son diventati fantasmi, le tombe si aprono e gli ottoni chiamerebbero le anime dai sepolcri”.
Ma questo è nel testo? Ci risulta che Elvira non muoia affatto, anzi …! Perciò una rumorosa accoglienza a fine spettacolo.
Anche al direttore, Matteo Beltrami, il severo pubblico del giglio non ha risparmiato contestazioni. La sua direzione è apparsa, infatti, lenta e priva di smalto, finendo per sottrarre all’ opera quell’inconfondibile carattere romantico e profondamente passionale che dovrebbe essere sempre reso. Basti pensare solo alla celeberrima aria “Suoni la tromba e intrepido”, icona dell’epopea risorgimentale, risolta in modo bolso e anodino.