Roma, 28 aprile – Il Quirino presenta al suo pubblico il penultimo spettacolo in cartellone prima della pausa estiva: ed è un vero successo, come tanti altri che lo hanno preceduto. Di scena è “Il Consiglio d’Egitto”, ambientato tra il 1782 e il 1795, in una mescolanza di personaggi storici e di fantasia, tratto dal romanzo capolavoro di Leonardo Sciascia, degno erede di Pirandello che impronta ancor più l’ indagine sui fatti storico-sociali della sua terra, una Sicilia amatissima e svelata come sotto un microscopio.
Scritto nel 1963 quando ancora non era stato permeato dallo spirito pessimistico senza speranza che lo avrebbe portato a delineare una differente consapevolezza politica, “Il Consiglio d’Egitto” , ridotto per il palco, si avvale di una incalzante regia di Guglielmo Ferro, che gioca con le scene abilissime di Salvo Manciagli, sipari rigidi che scorrono dai lati, piovono dall’alto sul palcoscenico dando luogo alla molteplicità di ambienti nei quali si svolgono i fatti narrati, imperniati su due concetti fondamentali: il potere e la legittimità di esso in una società nella quale si sono radicalizzati due schieramenti: i vincitori, quei nobili inetti e abbarbicati ai loro privilegi, quella classe di “gattopardi” che avevano vissuto da protagonisti nel romanzo di Tomasi di Lampedusa, uscito appena cinque anni prima, e gli altri, come il parroco Vella, cioè quelli che stentano la vita e si fanno smorfiare i sogni, che lottano per mettere insieme il pane quotidiano. A far da ponte ai due estremi della piramide sociale, ecco un gruppo di pochi illuminati, seguaci della Ragione e delle idee francesi che hanno scavalcato il confine, quelle che propugnano il mutamento, le riforme, la distruzione dei privilegi di casta. In scena c’è quella Sicilia e quella Palermo che non ha mai smesso di sentirsi capitale di Regno. Una Sicilia dove deflagrano sentimenti forti, dove la realtà e la sua percezione sono deformate da una mistificazione che vuole addirittura sovvertire quelli che vengono considerati storici privilegi, dove si insinuano le radici del diritto. E sono i privilegi osteggiati dal viceré Caracciolo, illuminista e riformatore, nemico giurato della nobiltà terriera siciliana che lo ricambiava di pari antipatia, come dell’alta gerarchia dei Prelati.
I fatti nascono dal caso, alla fine del XVIII secolo quando don Vella, nato a Malta e con una larvata comprensione della lingua araba, viene chiamato d’urgenza a fare da interprete all’ambasciatore del Marocco, naufragato nella città della Conca d’Oro. Con l’occasione il furbo e povero parroco, costretto a sopravvivere con le questue e i pochi denari che gli fruttano le interpretazioni dei sogni per ricavare numeri per il lotto, viene invitato a tradurre un testo antico arabo venuto in possesso del cardinale palermitano. Il codice racconta episodi della vita di Maometto, ma è un’occasione troppo ghiotta per il povero prelato e il suo manutengolo Camilleri, che modificando con qualche ritocchino la scrittura, si inventa di sana pianta l’esistenza di un codice con documenti risalenti alla dominazione araba in Sicilia, (il Consiglio di Sicilia ed il Consiglio d’Egitto) dai quali sembra potersi desumere che molte delle proprietà di cui si fregia la nobiltà sono state frutto di usurpazioni ai danni della corona del Re di Napoli. Una rivoluzione che potrebbe fare saltare letteralmente l’assetto dell’intera isola. Sul fronte opposto, ecco farsi avanti un similare pericolo, giacobino questa volta, impersonato dal colto e francesizzante avvocato Di Blasi (Rosario Minardi), l’unico a non credere alle sconvolgenti rivelazioni pseudo storiche di don Vella tentato dalla causa giacobina, che vorrebbe sovvertire l’ordine costituito dai nobili oligarchi e dal compiacente Viceré pur facendo parte della casta mentre don Vella viene blandito con regali sempre più sostanziosi e persino con la concessione di una abbazia. Ora l’abate Vella può imperversare impunemente e ora Sciascia può offrire al lettore e allo spettatore un campionario di risate variamente modulate. Ora ironia e sarcasmo possono intrecciarsi ai mille spunti di riflessione, ora che l’abate Vella ha anch’egli conquistato il potere con la sua astuzia. Ma il potere può distruggere e travolgere chi vi si accosta senza la dovuta preparazione. Perciò, l’abate viene investito da una sorda ribellione di tutta la combriccola dei nobili, fino al punto di far cadere sospetti sul fidato collaboratore Camilleri, al quale offre la misura della sua furbizia facendogli confessare incredibili peccati che attengono di più alla natura della superstizione.
Lo spettacolo che suscita applausi a scena aperta si avvale della magistrale interpretazione del versatile Enrico Guarneri la cui vis comica lo fa riallacciare alla grande tradizione dei grandi artisti siciliani, a Turi Ferro, ad Angelo Musco. Esilaranti gli sketch comici con Camilleri (Vincenzo Volo). E assolutamente ben amalgamato il resto del cast (ben undici personaggi in scena). Tutti sono vestiti con costumi ispirati all’epoca firmati da Riccardo Cappello.