Quel che è certo è che c’è un imperium, che si può chiamare follia opportunista, o alienazione o incomunicabilità, ovvero un fiume immenso pieno di affluenti o ancora un miscuglio inestricabile che parla la lingua universale di una Napoli a mille facce, in questo “Spaccanapoli Times” di Ruggero Cappuccio, onnicomprensivo autore, regista e primo attore, in scena al teatro Eliseo.
Napoli come fantasia e riflessione, come invenzione di vivere e dotta disquisizione sugli eventi storici e sociali; Napoli erudita e stracciona, che affoga nella propria creatività e che vive nelle persone di questi quattro originali fratelli Acquaviva: Giuseppe, un po’ filosofo, un po’ erudito, scrittore segreto, manifesto vivente dell’arte “ impersonale”, che detta al telefono ad un personaggio ad una sola dimensione che chiama Giosuè, i suoi libri che vuole mantenere anonimi. Giuseppe vive da clochard disincantato e dorme sui treni vuoti tra i binari 8 e 9 della Stazione Centrale, salvo poi ogni tanto tornare nella casa della famiglia che ha visto scivolare nel gran Nulla bisnonni, nonni e genitori, assenti giustificati per inevitabili avvicendamenti umani. È l’attico di un palazzo di Spaccanapoli, con il salone tappezzato d’acqua, anzi da una collezione di acque minerali d’annata (bellissima invenzione scenica di Nicola Robertelli che la magia delle luci di Nadia Baldi impreziosisce oltre ogni dire), e qui indulge ad ascoltare sinfonie d’opera oppure addirittura a cantare e recitare insieme ai fratelli il terz’atto della Tosca, mentre le ore sono scandite con la ripetitività e perentorietà che ben si adattano alla sua precipua natura dalla sinfonia della verdiana “Forza del Destino” (rimaneggiata con maestria da Marco Betta).
L’altro fratello, Romualdo, è un bislacco pittore che incarna l’ossimoro creazione/distruzione, impegnato com’è a demolire le proprie opere un momento prima di averle completate. Lui ha l’arma letale di una comicità ancienne manière, fatta di battute ripetute e sferzanti, che diventano occasioni per lo sbocciare di risate, come nel monologo del caffè, autentico pezzo di bravura “edoardiano”.
Gli altri due membri di questo quartetto vestite con tutta la fantasia che Carlo Poggioli ha saputo mettere in moto sono Gabriella (deliziosa Gea Martire) che vive a Capodimonte ed ha una vita fatta di proiezioni e d’irrealtà, che ha scelto la formica come animale fobico, e Gennara, (Marina Sorrenti), che per amore era andata a vivere in Sicilia ed ora torna al richiamo di Giuseppe con accento palermitano, vedova, con una carica di superstizioni e con uno spasimante al seguito, il direttore di banca Norberto Boito, qui Giulio Cancelli che dispiega la voce con buoni esiti ne “E lucevan le stelle” di Puccini (nomen homen), a chiarire quanto importante è per Cappuccio la musica lirica.
Ancora un rivolo per il fiume in piena di questo testo. I quattro devono prepararsi all’assalto della legge che manderà un suo rappresentante, Ciro Damiano, nelle vesti dell’ispettore dell’ASL dottor Lorenzi, per verificare il diritto alla pensione per invalidi, e che si muove con il collo incassato profondamente à la manière dell’indimenticabile Giulio Andreotti.
Ruggero Cappuccio costruisce una drammaturgia di impianto polisemico che rilegge i classici, come radici pronte a germogliare, in linea con la lingua di Ionesco e Campanile, con le memorie del teatro dell’assurdo e del non sense e dei conseguenti estraniamenti. La comicità che finalizza le scelte di Cappuccio si muove fra lo stralunato mondo di chapliniane ascendenze e il tragico universo pirandelliano, ma ci sono momenti in cui è una satira feroce della civiltà e dei suoi riti a prevalere, come altri dove l’obiettivo è puntato su una riflessione sul significato della malattia mentale e del suo rapporto con la creatività.
È facile leggere riferimenti al grande teatro di Eduardo, quando il personaggio principale innesca i suoi monologhi deliranti oppure follemente “razionali”. Come in quello che racconta l’uomo e la sua follia, la sua incapacità di appropriarsi del linguaggio della modernità, destinato perciò ad una clausura sociale, mentre si infittiscono i motivi dell’incomunicabilità perché differenti sono i tempi della crescita individuale come indipendenti e senza regole sono gli orologi che segnano tutti ore diverse e non si riescono ad accordare.
Contraddizioni e metafore che raccontano la vita di oggi, come quel soffitto che continua a fare acqua persino quando fuori splende il sole. Un’urgenza di dire e davvero tanti temi, una folla di temi che tutti insieme a volte creano un corto circuito.
Ma i migliori cocktail non sono fatti con due o tre liquori al massimo?