Roma, 10 marzo 2019 – Il Teatro di Roma, nello spazio del Teatro Argentina, ospita l’ultimo spettacolo in ordine di tempo di Pippo Delbono, “La Gioia”.
L’autore dice: ”Ho scelto di intitolare il mio spettacolo ‘La gioia’, una parola che mi fa paura, che mi evoca immagini di famiglie felici, di bambini felici, di paesaggi felici. Tutto morto, tutto falso». Perché in realtà questa è un’indagine, una quête iniziatica attraverso lo sconfinato spazio-tempo dell’angoscia, del dolore, della felicità e del ricordo.
L’atmosfera che si respira entrando in platea al Teatro Argentina è come sospesa, induce quasi a mormorare con un filo di voce mentre si spengono le note di ‘Don’t Worry, Be Happy’ di Bobby McFerrin. E’ il palco nudo e buio che si riempie lentamente della voce suadente e seduttiva di Pippo Delbono, voce reale e registrata che gli permette una pluri-locazione nello spazio, ipnotica e carezzevole. Ma il nero e il vuoto sono anche il chiaroscuro indispensabile per far risaltare un funerale musicale simbolico richiamato dalla disposizione di fiori sul pavimento accanto ai quali Pippo Delbono si allaccia ad una tangheira per danzare una milonga; è la processione chiassosa e colorata ma anche malinconica dei circensi, così come quella cortina che scende dall’alto con le sue barre verticali e lo imprigiona; è ancora la panchina, che prima occupava Bobò, l’omino sordomuto “rapito” da Delbono dal manicomio di Aversa e portato a far teatro, divenuto ben presto icona della sua poetica, posta lì, all’inizio di ogni spettacolo, e rimasta vuota sul palcoscenico, malgrado il I° febbraio di quest’anno Bobò sia volato sulle sue ali d’angelo. Quel vuoto racconta anch’esso la strada verso la gioia, un cammino fatale e inevitabile che si muove sincronicamente, per poi allacciarsi al sentimento del tempo nel correre inesausto delle stagioni e alle sue differenti percezioni di esso. Una libertà che è certo caratteristica dei matti. A Bobò l’intera compagnia organizzava compleanni più volte all’anno. Ora sarà lo stesso regista al centro del rituale,della festa del non-compleanno, sarà lui a spegnere la candelina simbolica, occupando lo spazio lasciato vuoto da Bobò che secondo Delbono conosceva ‘il senso profondo e il segreto del teatro’.
Sul palco come evocazioni i ricordi di un circo diventano i suoi personaggi, apparizioni, ectoplasmi a colori rimasti a marcare un tempo passato. Un tempo della gioia, della leggerezza, come del dolore e della perdita; tempo che naufraga in un mare di stracci colorati che furono già le vesti e i pochi averi di chi affrontava sotto vane promesse e suggestioni il rischio delle acque fonde. Luci preziose di Orlando Bolognesi Illuminano egregiamente un popolo di barchette di carta, evocando il dramma mentre Delbono con la sua voce flautata declama il Pater noster riscritto da Erri De Luca: «Mare nostro che non sei nei cieli, / all’alba sei colore del frumento, / al tramonto dell’uva e di vendemmia. / Ti abbiamo seminato di annegati / più di qualunque età delle tempeste». Un’apertura al dolore che lo spinge fuori dall’autobiografismo, che gli fa accogliere le emarginazioni, le sofferenze altrui, indispensabili anch’esse in questo che si precisa sempre più come un cammino iniziatico. Queste luci sono un membro aggiunto della compagnia, possono vestire un omino di puntini luminosi blu, o accendersi tra le file di poltrone in platea quando gli attori debordano nei corridoi. Mentre il tempo si modula e si sparge con le foglie sul palco e fiorisce prodigiosamente (allestimenti floreali di Thierry Boutemy) sbocciando, strisciando giù dal soffitto con liane fiorite, che avvolgono come anelito di speranze in un rincorrersi continuo, mentre risuonano le note di “Maledetta Primavera”, con la voce possente di Gianluca Ballaré, un ragazzo down che imita perfettamente Loretta Goggi. E continua il viaggio non sugli eventi ma sulle emozioni che sanno suscitare: è la cifra espressiva di Pippo Delbono che si spalma su una platea attenta che si interroga sui misteri disseminati lungo il cammino della gioia, sui tanti buchi neri che costellano l’esistenza del performer, lui che da oltre venti anni vive con l’incubo della sieropositività, compagno indispensabile al superamento della paura della morte e esperimento di vita. Lo spettacolo assai curato coinvolge empaticamente il pubblico la cui attenzione è costantemente sollecitata anche da numerose citazioni, ad esempio Beckett, o l’”Enrico IV” di Pirandello, o la preghiera dell’attore che il grande Totò rivolge al Signore: «C’è tanta gente che si diverte a far piangere l’umanità, noi dobbiamo soffrire per divertirla; manda, se puoi, qualcuno su questo mondo capace di far ridere me come io faccio ridere gli altri».
Scelte raffinate accompagnano tutto lo spettacolo, come il commento musicale curato da Pippo Delbono e Antoine Bataille con brani da “Masquerade” di Khachaturian, ma anche “Io so’ pazzo” di Pino Daniele, o la delicata “Petite Fleur”.
Sul palco, la compagnia intera indispensabile a far funzionare questa macchina perfetta, una raccolta di situazione umane al limite e spesso emarginate che lui porta in scena camuffata in costumi circensi o clowneschi. E che merita di citati tutti i suoi componenti,ligi ad assecondare il loro burattinaio: Dolly Albertin,Gianluca Ballaré,Margherita Clemente, Ilaria Distante, Simone Gaggiano, Maria Intruglia, Nelson Lariccia, Giorgio Parenti, Pepe Robledo, Zalaria Safi e Grazia Spinello.