Rigoletto senza dimore
Davvero poco per rappresentare questo Rigoletto, ultima opera nella programmazione del 2014, venuta a completare il calendario in un momento di bufera.
Bufera dei musicisti sconsolati per i ribaditi licenziamenti in blocco, del Coro sbaragliato dalle decisioni inconsulte del Sovrintendente e del Sindaco Marino, che non è certo frequentatore dell’Opera o dell’Accademia, preso com’è da altri interessi, ginnici per lo più.
E il pubblico? Commenta che dato lo stato delle cose, dato il rischio che il teatro vada completamente a fondo, non conviene rinnovare l’abbonamento. Poi smozzica qualche applauso e ingenerosi fischi all’indirizzo del direttore d’orchestra Renato Palumbo, che tutto sommato ha portato avanti la partitura verdiana con grande dignità, e che si era fermato a dire due parole di solidarietà e di ringraziamento ad orchestra e coro per la loro disponibilità e collaborazione in questo momento per loro così difficile, testimonianza del loro amore per la musica.
In realtà, uno dei problemi principali è che questo Rigoletto ha avuto la sorte di incrociare personaggi che gravitano nel mondo degli allestimenti di sottilissimo spessore. Prima fra tutti la creatrice delle scene. Ma quali? Non ci sono che pochi sipari, tendine e tendoni che scendono dall’alto a marcare i luoghi deputati all’evento rappresentato. E qualche raro oggetto, una orrenda poltrona marcatamente dorata, un letto che è tutto un trionfo del kitsch.
A rendere quasi palpabilmente comico il tutto, Federica Parolini si premura di fare scrivere un tabellone con l’indicazione “Palazzo del duca” e, nel finale, “Osteria”. Certo un bisogno di spiegare qualcosa di inspiegabile.
E se pure sia preferibile il vuoto ad una scena di cartapesta troppo descrittiva, davvero qui mancava il senso di un allestimento.
Né potevano piacere i costumi, laddove il povero Rigoletto, buffone di corte, incarico prestigioso di moderatore dell’umore del suo padrone vorace di avventure nelle autostrade dei cuori femminili, risultava copiato di peso dalle vecchie divise dei ministeriali o dei portieri dei palazzi anni ’50. E dire che erano stati affidati a Silvia Aymonino, altre volte lodata per la sua creatività. E la scena della festa a palazzo ducale risolta con frac e maschere di maiali? Ma gli esempi del cattivo gusto passano anche attraverso le scelte di una regia fragile e anonima dovuta alle scelte di Leo Muscato, più noto come regista teatrale, che aveva parlato a proposito del suo allestimento di regia espressionista, dimenticando in progress le sue rivelazioni.
Lo spettacolo, fin dall’inizio suscita la critica del pubblico per i sovra titoli, ottima scelta tendente a rendere comprensibile le parole cantate, in inglese e in italiano, ancor più apprezzabile nella visione protesa alla internazionalizzazione del teatro, ma qui scritti in caratteri piccolissimi e poco illuminati e dunque poco leggibili.
Inoltre, anche musicalmente, lo spettacolo stenta a decollare, con un primo atto senza éclat, senza quei guizzi sanguigni che Rigoletto porta con sé come patrimonio personale. Poi , dal secondo atto in poi tutto migliora, si delineano i personaggi e la loro narrazione musicale, magnifica a livello di direzione orchestrale ad esempio la scena all’inizio del terzo atto che vede in duetto Gilda e Rigoletto, intensa e garbata ad un tempo. Ed è propria la lettura di Palumbo che ci è apparsa la cosa più coerente in questo nuovo allestimento di Rigoletto, anche se bisogna accontentarsi di interpreti come Giovanni Meoni, che ha voce dal buon timbro di baritono “nobile” verdiano, una buona voce “italiana” ma non proprio di spessore indimenticabile, che non scivola nei gorghi del verismo e si sforza di assumere credibilità in un ruolo dove il dramma privato, di un uomo solo, vedovo di una donna angelicata che non si fermava a considerare il suo aspetto, con una figlia giovane e ingenua, si sposa con il suo dramma sociale, espresso dalla necessità di sfruttare la deformazione fisica per fare ridere il giovane duca.
Ekaterina Sadovnikova, Gilda, l’ingenua, vittima delle lusinghe d’amore di Gualtier Maldé, identità che nasconde il duca attentatore di ogni virtù, ha una intrinseca fragilità vocale, anche se riesce a strappare l’applauso con le più sfolgoranti note acute nel fringuellante “Caro Nome”.
Il duca di Mantova è Piero Pretti che ha svolto con diligenza il proprio ruolo regalando momenti molto felici nelle romanze principali come “Bella figlia dell’amore” e “La donna è mobile”.
Ottime davvero le luci di Alessandro Verazzi che davvero hanno supportato e reso credibile un allestimento così misero.