Roma, 15 dicembre 2018 – L’adamantina e virginale fede di Jokanaan, la lussuria e il desiderio bramoso che suscita il suo corpo giovane, la sensualità morbosa della vergine conturbante Salomé incapace di gestire un desiderio ossessivo, una furia sessuale che urge, la lussuria irrefrenabile di Erode esplosa alla vista del corpo nudo della fanciulla e la calcolata durezza di Erodiade: un quadrifoglio conturbante sfumato di vaticini, invettive, voglie rabbiose e folli, e sul finale la resa senza condizioni ai capricci della fanciulla Salomè che sa risvegliare nel patrigno inconfessabili appetiti sessuali.
Questo è il milieu nel quale si agitano i personaggi della ‘Salomè’ di Oscar Wilde, personaggi estremi, chiusi ognuno in un mondo particolare che ha la durezza di un acciaio e l’inattingibilità di una sfera.
Così in quest’opera lunare con i frequenti riferimenti ai miti di Iside, con l’astro che il regista Luca De Fusco vuole incombente sul palcoscenico, quasi nudo. E mutevole. Con l’argento del suo lucore che può diventare rosso sangue mentre ombre di ali nere, di lugubri uccelli della morte coprono l’immagine che fa da sfondo al palcoscenico e ossessionano con il loro presagio il tetrarca. Ieratico e purissimo il bel volto del Profeta è lo sfondo del palco, le sue carni d’avorio, i suoi capelli neri e le labbra rosse che parlano un linguaggio inascolato e inudibile, frutto questo di una scelta registica raffinata che mette la tecnologia filmica ( installazioni video di Alessandro Papa) al servizio di un’idea poetica. D’altra parte era indispensabile per rendere un testo dove è possibile trovare espresso sempre al massimo grado umorismo paradossale, simbolismo, intellettualismo, estetismo sensuale, i tracciati più idonei a definire la ‘Salomè’ in questa bella edizione che sembra pensata per valorizzare la stagione del centenario al teatro Eliseo. Quest’opera strana e inquietante racconta la personalità estrema del suo autore, rinnovatore dell’agonizzante commedia inglese e provocatore di scandali, pietra miliare della cultura britannica nel trascolorare del secolo e figlio di quella belle époque che sommuoveva le coscienze.
L’opera venne scritta in lingua francese durante un soggiorno del drammaturgo a Parigi nel 1891 (pubblicata poi nel 1893 con le illustrazioni liberty di Aubrey Beardsley) appositamente per l’attrice Sarah Bernhardt la quale, nonostante le numerose prove, si rifiutò di interpretare il personaggio sulle scene, a causa dello scandalo che aveva travolto Wilde, condannato a due anni di carcere duro per «gross public indecency», come era definita l’omosessualità dalla legge penale che codificava le regole, anche morali, riguardanti la sessualità.
Il racconto amplifica e rende vivo l’episodio biblico.
Rinchiuso in una cantina buia nel palazzo di Erode Antipa, il Profeta Jokanaan rivolge invettive e vaticini ispirati e implacabili contro di lui e contro Erodiade, sua moglie e vedova del fratello. Durante un ricevimento sulla terrazza di marmo nero del palazzo reale, Salomè ascolta la voce del prigioniero e ne resta turbata e pretende di conoscerlo sottraendolo alla prigione scura. Accontentata, alla sua vista viene assalita da una passione feroce, una aberrazione delirante che la spinge a cercare un contatto fisico con lui. Invano. Morsa dalla ferocia del suo desiderio inappagato, Salomè promette al Tetrarca che ballerà per lui se egli si impegnerà ad esaudire una sua richiesta. Erode promette. E la parola di un re è sacra. Vestita di sette veli, bellissima come una visione Salomè danza e lascia cadere i suoi drappi ad uno ad uno. Poi chiede la mercede pattuita: la testa di Jokanaan servita su un vassoio d’argento. Invano il patrigno le offre metà del suo regno, i suoi cento rarissimi pavoni bianchi, i suoi smeraldi e tutte le gioie dei suoi ricchi scrigni. La fanciulla è irremovibile.
Un’opera così fisica, per certi versi, che si pregia di un coup de théâtre finale, aveva bisogno di attori di un notevole calibro, così accanto ad Eros Pagni, che ha dosato con tutta la sua autorevolezza le sfaccettature di un personaggio tormentato, sensuale e inquietante, rifulge per bravura e bellezza Gaia Aprea, degna Salomè e la potente Erodiade Anita Bartolucci, abbigliata con un costume e una acconciatura che ricordano le tele di Klimt (magnifici i costumi di Marta Crisolini Malatesta) e poi lui, Jokanaan, il prestante Giacinto Palmarini.
Di valore il resto della compagnia.
Una menzione speciale per le luci curatissime di Gigi Saccomandi e l’accompagnamento sonoro di Ran Ragno che illustra i movimenti coreografi della danza dei sette veli di Alessandra Panzavolta.