Spettacolo
Teatro dell’Opera – Rinasce la storica edizione della prima dell’eroina puccinina
Con Mario brillano le stelle su Tosca.
Che dire di questa Tosca riproposta al Teatro dell’Opera se non che appare molto più originale di tutti gli esperimenti che registi di strillo hanno voluto donare, convinti che il loro estro personale servisse a svecchiare il celebrato mélo pucciniano.
Perché Tosca è certo la star di ogni cartellone, la più rappresentata al mondo.
Un’opera romana per una regina romana. Tosca vive del respiro di luoghi celebri, la Basilica di Sant’Andrea della Valle, il Palazzo Farnese, Castel Sant’Angelo. Tosca è un clima politico, Tosca è il governo papalino, fatto anche di stalking, quando il potente ministro della giustizia, il barone Scarpia, è incapace di rinunziare ai piacere carnali, pur serbando quell’allure austera e bigotta che gli apre le porte del potere nero. Tosca è lo sfarzoso Te Deum nel quale la solennità è occasione per l’esposizione di ori e ricchezze; è il giovane idealista che inneggia a Napoleone e alle sue vittorie come si inneggia alla libertà (Ahimé le illusioni storiche). Tosca è una città che si risveglia sul far dell’alba dipinta di rosa, è la voce limpida di un bambino che giunge con le sue caprette e si rincuora nel silenzio sonnacchioso stornellando a squarciagola una canzone d’amore “Io de’ sospiri/ ve ne rimanno tanti”. E Tosca è naturalmente la grande storia d’amore e di gelosia fra la cantante alla moda, apprezzata a corte Floria Tosca e Mario Cavaradossi, madonnaro, perché se vuoi fare il pittore e vivi in quel momento storico in una città governata dai papi devi per forza trovarti qualche commissione in chiesa.
Tre personaggi per un capolavoro con la musica di Puccini che ne titilla le specifiche psicologie, che li umanizza e dà loro quelle spinte emotive e quei sentimenti che sopravvivono e suscitano ancora vivissime accoglienze. E’ l’Amore, signori, l’Amore, nelle sue varianti. Lo stesso che oggi rapisce Carlo Savi, lo scenografo che con solerzia ha ricostruito un grande allestimento pittorico con le scene originali del 14 gennaio 1900, la prima del Costanzi, quando in platea arrivò tra i bagliori degli orienti delle sue perle la regina Margherita.
L’Amore di Savi ha agito recuperando e riconsegnando alla nuova vita e alla storia i modellini di Adolf Hohenstein, i bozzetti delle scene, le foto d’epoca. Ed ecco sul palcoscenico è tornata la poesia e l’eleganza, sono tornati i paesaggisti francesi dell’Ottocento, è rinato il clima poetico degli acquarelli di Pinelli, specialmente nelle vesti delle popolane accorse in chiesa per il solenne Te Deum, i loro copricapo,ripresi egregiamente da Anna Biagiotti, i lussuosi e magnifici arredi dello studio di Scarpia (spesso gli originali sono a lungo lasciati nella disponibilità dei colti topi di via Dei Cerchi, storico magazzino dell’Opera). In mezzo a tanta bellezza, la nota stonata erano proprio i costumi di Tosca: insipidi, perché la filologia non aveva avuto ragione della magnifica, consolidata tradizione (con la quale l’opera deve sempre fare i conti) delle elegantissime eroine che hanno indossato la diva: Raina Kabaivanska, nella rara eleganza di una mise rosso fuoco coordinata a parure con pietre in tinta. Maria Callas, inarrivabile interprete del personaggio, in velluto nero incrostato di gioie, la stessa Ines Salazar, splendida interprete accanto a Luciano Pavarotti nella Tosca del centenario. La regia del giovane italo-sudafricano Alessandro Talevi respira lo stesso gusto delle scene e costumi e, attenendosi alla volontà di Puccini, si muove con disinvoltura negli spazi regalati dalla valentia di Adolf Hohenstein reincarnato in Carlo Savi.
Ed ora veniamo ad un punto dolente. La ucraina Oksana Dyka, Floria Tosca, che ha lusinghiero curriculum, è un diamante cui un tagliatore frettoloso e distratto non ha saputo donare i fulgori delle sue facce regolamentari. Restano i suoi acuti perfetti, la gestione dei fiati, ma le morbidezze, le mezze voci, quei filati che intrappolano il cuore di chi ascolta e lo trascinano sulle rotte dei languori delle stelle, no. Un’occasione mancata. E qui potrebbero entrare in gioco fattori come l’umiltà di riconoscersi ancora incompleti, la poca voglia di studiare per imparare a cantare all’italiana, il sacrifico in competizione con la gestione di una bella voce naturale, che significa spesso agenzie che hanno tutto l’interesse a lanciare sul mercato artisti che, spinti allo studio e all’approfondimento, potrebbero conoscere la longevità e spesso, invece, hanno il destino delle farfalle. Inoltre, non agevolata dal fisico curvy, la Dyka, specie nel secondo atto, col suo vestituccio celestino sbiadito, banalizzato da un cinturino a vita alta, mostra attitudini grossières poco in linea con il ruolo di una donna di fuoco e di arte come la celebre cantante che interpreta. Roberto Frontali porta al suo barone il corredo della lunga consuetudine con il personaggio, riuscendo ad essere credibile “bigotto satiro che affina colle devote pratiche la foia libertina e strumento al lascivo talento fa il confessore e il boia”. Invero, è l’appassionato Cavaradossi del giovane Stefano La Colla che ha saputo accendere l’occhio di bue dell’interesse del pubblico in questo cast. Limpidezza e luminosità vocali, curatissimo il fraseggio, colore bellissimo e ottimi e ben postati acuti e lui padrone di casa in scena, in crescendo fino ad un magnifico “e lucevan le stelle”.
La direzione musicale di Donato Renzetti è senza éclat né sorprese, non fosse che in alcuni momenti il polso che impugna la bacchetta lascia all’orchestra una libertà che si traduce in una rigogliosa emissione di suoni coprenti le voci.
Ottimo, invece, il coro gestito dall’esperto Roberto Gabbiani.
Molto ben curate le luci di Vinicio Cheli.