Una sirena in abito da sera
(Rusalka – foto C.M. Falsini – Teatro dell’Opera di Roma)
Certo un leggero sapore amaro in bocca resta.
Lui, Riccardo Muti, avrebbe assicurato ben altro sfarzo e risonanza alla serata inaugurale della stagione dell’Opera di Roma.
La sua Aida avrebbe scatenato la stampa e il pubblico delle grandi occasioni, con le solite note in ricche toilette e splendori diamantini a fare concorrenza alle luci. Ma anche con la presenza di autorità e critica internazionale, richiamate dalla certezza del grande evento e delle emozioni che un maestro come Riccardo Muti sa donare.
Poiché non era facile la sostituzione, il manageriato del Teatro dell’Opera ha disposto di cambiare totalmente registro ed ha proposto un’opera non popolare anche se molto piacevole come Rusalka di Dvořák, affidandola alla direzione musicale di Elvind Gullberg Jensen, un giovane e promettente norvegese che ha saputo trarre dall’orchestra colori delicati e sospesi ma anche vigorosi ed aspri, così come quei momenti di nostalgiche memorie wagneriane e le influenze conturbanti ed emotive di ambito ciaikovskijano che il compositore ha saputo tessere e ritessere fino a creare una trama nuova di grande sapienza sinfonica.
In tempi di spending review, l’Opera ha scelto un allestimento sobrio, che è stato uno dei componenti del successo che si è riscontrato alla fine dello spettacolo, la cui raffinatezza e eleganza poggiavano su un’estetica affinata da una lunga consuetudine con l’opera come quella vantata da Denis Krief.
Si tratta di una grande scatola ricoperta di assi di legno grezzo con elementi astratti e stilizzati, una foresta marina incorniciata in una sorta di pannello vitreo, un altro pannello ancora meno naturalistico e un rettangolo di metallo, lucido come uno specchio, o come la superficie di un lago sereno, posto trasversalmente al di sopra del palcoscenico, nel quale ondeggiano catene di schiuma d’aria che si muove nei lunghi e ampi teli traforati come merletti, il tutto vestito di una luce smeraldina che racconta con le sue variazioni di tonalità o con gli improvvisi e tranchant rettangoli luminosi bianchi quando deve sottolineare momenti musicali e drammaturgici. Nello stage si aprono botole e praticabili che scendono in abissi ignoti e misteriosi, mentre lateralmente grandi aperture si offrono alla luminosità gialla del sole, quella che conoscono nel mondo degli uomini, dove bastano alte colonne con capitelli quadrati a simboleggiare il palazzo del principe, dove Rusalka, la ninfa che si è fatta donna, vive la sua disperata passione d’amore.
Così la volle il compositore ceco Dvořák.
Ogni epoca storica conosce la propria consacrazione attraverso il linguaggio, musicale, coreutico, scenografico che sia.
Dvořák raccontò gli albori del 1900, le influenze inevitabili di Wagner che aveva colonizzato la composizione musicale di molti autori della sua epoca, quella morbida e dissimulata sensualità che sembra cogliere le radici più remote dell’essere, quando l’arte si sottrae alla realtà e diviene in tal modo una nuova lettura della stessa secondo i canoni del grande sogno del Simbolismo, che da corrente pittorica si allarga alla analisi di ogni espressione dell’essere. Nel musicista animato dallo spirito praghese, alberga il retaggio per il gusto del grand-opéra che affida al ballo la compiutezza di uno spettacolo lirico (qui le coreografie sono di Denys Ganio), come la fiaba popolare che di lì a poco sarebbe stata al centro degli studi del Formalisti Russi, o certe sequenze sonore regalate all’orecchio attento come un atto di omaggio (così risuonano le note iniziali dell’Adagio dal Lago dei Cigni di Ciaikovskij), e la musica della tradizione ceca, ma anche le pulsioni a leggere gli eventi in funzione delle scoperte di Sigmund Freud, il padre della psicoanalisi.
Tutto questo ed altro ancora rendono la Rusalka simbolica e tragica che ha aperto la stagione dell’Opera di Roma un’occasione speciale.
Nel liquido amniotico dove vive l’esistenza mitologica di ninfa d’acqua, Rusalka non si discosta dalle consorelle Melusine, Sirenette e da tutti quei miti nordici che affondano le radici nell’immaginario popolare.
Tutto questo andava mostrato al pubblico romano, ma non solo, perché la regia sapiente e assai creativa firmata da Denis Krief, assieme alle luci, straordinarie per bellezza ed impegno narrativo, cui si faceva cenno, e ai costumi raffinati, (bellissimi l’abito da sposa e quello da sera nero del finale) esaltano il rito di passaggio che trasforma la ninfa bambina che gioca con le bambole e i cavallucci a dondolo, inconsapevole della femminilità che sboccia con eleganza, assieme al fisico che si sviluppa nelle armonie liquide e anela un corpo umano e l’appagamento dei sensi nell’amore terreno per il giovane principe che il suo cuore ha a lungo mirato e poi scelto dalle profondità degli abissi marini.
La transustanziazione però, avverte la strega Ježibaba (Larissa Diadkova, bravissima ad estrarre dal personaggio anche tutti gli aspetti ironici e comici), ha un duro costo. Rusalka non potrà parlare né tornare nel mondo liquido fra le braccia del padre, lo Spirito delle acque, se sarà delusa dalla nuova vita umana e dal principe. Al quale è anche riservata in sorte una mortale maledizione. Il pentimento tardivo di lui, che l’aveva profondamente offesa preferendole una ben terrena principessa, non evita la tragica fine.
Rusalka si è conclusa con una ricca sottolineatura di applausi che hanno omaggiato la compagnia intera, dalla protagonista, la bella e brava Svetla Vassileva, al Principe di Maksim Aksenov, allo Spirito delle acque di Steven Humes e a tutto il resto del cast di davvero alto livello.
Un merito speciale va anche al coro educato da Roberto Gabbiani, sempre una certezza di resa artistica.