Roma, 07 novembre 2018 – “Il fu Mattia Pascal”, uno primi romanzi di Luigi Pirandello, che presenta in nuce tematiche e caratteri che saranno sviluppati nel ricco impianto filosofico del pensiero del premio Nobel agrigentino, è stato presentato con vivo successo al Teatro Quirino di Roma.
Quasi come una sfida, o per seguire l’indicazione straordinaria del Caso, Mattia Pascal (nel nome completo, l’ossimoro di Mattia/Matto, colui che perde la coscienza, che muore a sé, e Pascal, Pasqua la rinascita, la resurrezione) si distende sulle tavole del palcoscenico e con il volto, il corpo, la voce di Daniele Pecci rinasce per la quarta volta in questo bellissimo spettacolo.
Mattia Pascal aveva già abdicato una prima volta alla sua esistenza in vita quando la moglie lo aveva riconosciuto nel corpo e nel volto martoriato di un suicida, e ne aveva pianto la sorte accompagnandolo al cimitero e lui non aveva confutato la notizia diffusa dalla stampa locale. Anzi, colta la palla al balzo, aveva pensato di tagliare i fili della ragnatela che lo collegava ai suoi simili e, forte di una straordinaria vincita al Casino di Montecarlo, se ne era andato a Roma, spogliandosi delle memorie della vecchia identità anagrafica, per assumere i connotati di Adriano Meis. La consapevolezza di essere morto al mondo lo aveva colpito duramente, però, facendogli scontare sulla carne viva, il dramma dell’abbandono della identità, quando aveva dovuto subire tutta una serie di torti, compreso il furto di una grossa somma di denaro che non aveva potuto denunziare perché niente testimoniava la sua esistenza in vita, impedendogli di sposare la dolce Adriana, figlia del padrone di casa di cui era ospite pagante, né aveva potuto sottrarla alle attenzioni ambigue del cognato, per il semplice fatto che non c’erano radici sociali che testimoniassero che chi egli era, né c’era più alcun documento a suo nome. Egli aveva perso quel lanternino che proietta intorno il cerchio di luce al di là del quale c’è l’ombra nera del Grande Nulla.
È la teoria messa a punto dal sig. Paleari (il padrone della pensione), un misto di teologia e filosofia: è la luce che dà valore alla nostra conoscenza, diceva Paleari, ci sono tante luci diverse per ogni uomo, e tutte interrelate fra loro e poi a loro volta soggette ad una luce predominante. Al di là c’è solo il Buio Assoluto, l’Inconoscibile. Ogni sforzo di conoscenza si interseca con gli esperimenti teosofici, le sedute spiritiche così frequenti a casa Paleari per squarciare i veli dell’Ignoto. Ma inutilmente. Ed ecco che non resta altro che fare morire Adriano nel più classico dei modi facendolo scomparire nelle acque nere del Tevere e poi tentare di ripercorrere i passi del fu Mattia Pascal.
Ma non si dice che “partire è morire un po’”, perché le persone, le situazioni, il sistema d’attese si modificano sensibilmente. Ancor più nel caso di una morte, il distacco degli altri, di tutta la ragnatela dei nostri rapporti umani spezzati, rende impossibile tornare indietro. Così, semplicemente, Mattia Pascal non può rivendicare il proprio sé, la sua scomparsa è irreversibile. Egli si identifica con l’assenza definitiva perché ormai da due anni è solo un nome su una lapide.
Questa l’opera di Pirandello, nata per essere lette a puntate, ma trasferita più volte sia sullo schermo che a teatro e qui, in questa bella edizione del Teatro Quirino, adattata da Daniele Pecci stesso e per la regia misurata e brillante di Guglielmo Ferro.
Lo spettacolo si basa sui flash back che permettono a Mattia Pascal di rivisitare le stazioni della propria straordinaria vita nel chiuso claustrofobico di una biblioteca (scena mobile, assai duttile a mostrare i diversi luoghi della vicenda firmata da Salvo Manciagli), dove consuma le sue memorie assieme a don Eligio (Rosario Coppolino). Accanto a Pecci, un ottimo cast (Adriano Girardi, Diana Höbel, Marzia Postogna, Giovanni Maria Briganti, Vincenzo Volo e Maria Rosaria Caarli) che fa rifulgere il concetto di umorismo che in seguito Pirandello avrebbe codificato più chiaramente. Anche se l’argomento non sembrerebbe adatto al sorriso, non mancano momenti di esitazione fra riso e pianto, umoristici appunto, perfettamente percepiti e sottolineati dal pubblico del Quirino