Roma, 06 marzo 2020 – Blanche DuBois come Anna Karenina, come Emma Bovary. Personaggi sottratti alla letteratura e vivi di una vita universale perché diventate nel tempo prototipi di un modo di declinare la femminilità. Blanche vive la sua vicenda tormentata, i suoi deliri, i suoi sospirosi inganni, il sogno di un benessere affettivo che si spreca e si disperde nel matrimonio con un inquieto omosessuale, un giovane uomo costretto dalla intolleranza dell’epoca a scegliere il suicidio, e in tutte le perdite di una esistenza votata all’autodistruzione.
In questa edizione presente al Quirino di “Un tram che si chiama desiderio” di Tennessee Williams, di cui è protagonista Blanche, la regia è curata egregiamente da Pierluigi Pizzi, assieme alle scene e ai costumi, e mostra anche per questo una encomiabile coerenza stilistica.
Il dramma che fruttò all’autore nel 1947 il premio Pulitzer, si apre a raggiera su un lato oscuro dell’America degli anni ’40, sconfessandone il roseo “American dream”, anzi svelandone all’opposto con tematiche sociali in stridente contrasto come l’omosessualità, o come la sessualità ingorda e inappagante, l’innata attitudine puritana e ipocrita, quella che condanna senza remissione Blanche e il suo sottomondo di disagio mentale nel quale perbenismo, smanie fisiche e deliri, si riversano nel grande buio della schizofrenia.
Una mirabile Mariangela D’abbraccio, artista matura e sensibile, una delle grandi protagoniste del Gotha teatrale, abile nel regalare a Blanche tutta la fragilità che la contraddistingue come anche la forza di una sensibilità eccelsa, gioca con le sfaccettature estreme e empatiche del personaggio, con i suoi sussulti che vivono ancora lo spessore di una irrisolta adolescenza.
Blanche arriva in scena dopo aver lasciato New Orléans: è stata licenziata per lo scandalo provocato dalla relazione sessuale con uno studente minorenne, è ferita dalla memoria incancellabile di un passato oscuro che tenta di occultare con un tessuto di menzogne, alcolizzata, e con il suo carico di problemi irrisolti, cui si era aggiunto il pignoramento della piantagione e della casa di famiglia che avrebbe dovuto amministrare anche in nome della sorella Stella, si presenta a casa sua, un piccolo appartamento seminterrato, nel quale vive con il marito Stanley Kowalsky, un oriundo polacco che ha il fisico prestante di Daniele Pecci, uomo duro, incline alla violenza.
L’abitazione è angusta e cupa, per vedere il cielo bisogna spingere lo sguardo in alto. Pierluigi Pizzi l’ha voluta tutta dipinta di grigio, e claustrofobica, infelice come la vita dei suoi abitanti con Stella che evade dalle frustrazioni portando avanti la sua gravidanza e Blanche che cerca nell’alcool quello stordimento, quel tentativo di proiettarsi fuori dal suo turbato mondo interiore fatto di falsità, di verità occultate sotto un mare di desideri irrealizzabili, di deliri.
Delirio sono gli amici ricchi che l’invitavano in lussuose crociere, delirio quei soggiorni in sfarzosi hotel, quelle vesti bianche e pudiche che dovrebbero conferirle una perduta purezza.
Lei, strenuamente, cerca di conservare un’illusione di giovinezza, ama la notte che le leviga le rughe del viso, le luci ovattate che nascondono al giovane Mitch (Stefano Scandaletti), un ragazzo con il quale il cognato gioca a poker, la sua vera età, e le impronte impresse sul suo volto dagli incontri a pagamento in squallidi albergucci a ore, irrorati da stordimenti etilici.
Subito la convivenza dei tre si fa pesante, con Blanche in lotta scatenata con la realtà, che rimprovera Stella di avere sposato un uomo triviale e rozzo, con Stanley sempre più intollerante degli spazi occupati dall’ospite, lui che ha dovuto costruirsi a fatica un’esistenza in un Paese straniero, spingendo il carro pesante della vita con forza brutale e arroganza. Il conflitto fra i cognati diventa sempre più violento, più stridente, fino a culminare in uno stupro ‘punitivo’che spinge fino all’estremo limite la mente già vacillante di Blanche.
Accanto a Mariangela D’Abbraccio, Daniele Pecci costruisce il rude e maschilista Stanley, che nella versione cinematografica del 1951 aveva fatto spiccare il volo del successo mondiale al giovane Marlon Brando, accanto a una Vivien Leigh già avanti negli anni, nel celebre movie di Elia Kazan. Nella versione pregiata di Pierluigi Pizzi, risulta davvero alto il livello della compagnia, con Angela Ciabutti, una fresca e appassionata Stella, tutto il cast si muove sulla scena semplice ma particolarmente efficace con una scala verso un ballatoio e una strada lasciata all’intuizione di chi guarda.