Caracalla –Il capolavoro di Puccini diretto da Donato Renzetti

Tosca è  Roma
Molti perché germogliano dopo aver rivisto l’allestimento di Tosca, nato per le dimensioni austere e grandiose delle rovine di Caracalla, e quasi tutti restano sospesi e senza risposta.
Tosca vive del respiro di luoghi romani celebri, la Basilica di Sant’Andrea della Valle, il Palazzo Farnese, Castel Sant’Angelo. Tosca è un  clima politico, Tosca è il potere papalino, fatto anche di stalking, quando il potente ministro della giustizia non si priva dei piacere carnali, pur serbando quell’allure austera e bigotta che gli apre le porte del potere nero. Tosca è lo sfarzoso Te Deum nel quale la solennità è occasione per l’esposizione di ori e ricchezze; è il giovane pittore idealista che inneggia a Napoleone e alle sue vittorie come si inneggia alla libertà (ahimé le illusioni storiche!). Tosca è la voce limpida di un bambino che giunge con le sue caprette sul far dell’alba e si rincuora stornellando a squarciagola una canzone d’amore “Io de’sospiri/ ve ne rimanno tanti”.
E Tosca è naturalmente la grande storia d’amore e di gelosia fra la cantante alla moda, apprezzata a corte Floria Tosca e Mario Cavaradossi,  madonnaro, perché se vuoi fare il pittore e vivi in quel momento storico in una città governata dai papi devi per forza trovarti qualche commissione in chiesa.
Tre personaggi per un capolavoro con la musica di Puccini che ne titilla le specifiche psicologie, che li umanizza e dà loro quelle spinte emotive e quei sentimenti che sopravvivono e si riprendono suscitando ancora vivissime impressioni. Cifra distintiva con la musica è la maestà dei luoghi deputati.
Ma nell’allestimento di Pierluigi Pizzi, spolverato dopo quasi cinque anni, i vetusti monumenti dello splendore di Roma che dovrebbero fare a gara con i grandiosi ruderi di Caracalla sembrano di quelle costruzioni da Italia in Miniatura, simboli e nulla più.   Una ridotta cupola, forse di Sant’Andrea della Valle, che nell’ultimo atto si scinde a metà per permettere a Tosca di suicidarsi lanciandosi nel vuoto. Tutto è rigorosamente bianco.
La statua della Madonna, venerata della cantante, immotivatamente diventa un clone di ridotte dimensioni della Pietà di Michelangelo. In tanto bianco spicca il nero delle camice dei camerati e di Scarpia.
Le libertà di Pizzi si estendono infatti all’epoca storica del dramma, non più, come recita il libretto, quel fatidico sedici giugno 1800 con l’inattesa vittoria di Napoleone a Marengo che accende uno slancio eroico nel povero giovane torturato, ma gli anni trenta del secolo passato, in pieno ventennio fascista; slittamento d’epoca che ha determinato incongruenze con il libretto.  Altri “abusi”: l’assassinio del ministro senza Crocifisso e le candele, ma con un segno di croce disegnato in aria da Tosca. La quale, prima di volare con le ali del pericolo dispiegate, trova il tempo di passare da casa per un inspiegabile cambio d’abito. Peraltro, i costumi sono davvero bellissimi, specie quello del terzo atto, un abito bianco sontuoso indossato da Tosca per il recital di corte, completato da un ampio mantello rosa cipria. Qui Pizzi ha sfoderato la lunga esperienza che gli permette di curare contemporaneamente anche regia e scene. Incanalato nell’ottica contemporanea che sceglie di impoverire gli allestimenti, di sfrondarli, Pizzi offre al pubblico un Te Deum, (unico momento spettacolare di un’opera intimista con l’esposizione del Crocefisso e i fedeli salmodianti), senza simboli: solo uno sventolio di incenso e un coro di chierichetti, poco pubblico di fedeli, e tuttavia con una sua eleganza statica.
Ottima la conduzione musicale di Donato Renzetti, costretto a destreggiarsi in uno spazio immenso dove l’amplificazione indispensabile si impadronisce del suono, costringendo a colori estremi. Ma questa è una piaga dell’opera proposta all’aperto.
A deliziare il pubblico da sold out l’eccellente prova di Roberto Frontali, in Scarpia, phisique du rôle, e una capacità rimarchevole di tenere la scena. I suoi mezzi vocali sono indiscutibili e lo è ancor di più la sua recitazione, elegante sempre, a bell’agio nei panni di un gerarca in orbace, a impersonare il “bigotto satiro che affina colle devote pratiche la foia libertina”, senza inutili gesti retorici e animato da un importante spessore vocale, dalla capacità di illustrare il personaggio in tutte le sue contraddizioni.
Il lirico Giorgio Berrugi, Cavaradossi, mostra generosamente una  naturale musicalità e un bel colore specie nelle mezze voci, ma non riesce a comunicare la spavalderia e la gagliardia del pittore per i quali bisognerebbe disporre di una differente potenza vocale. Tatiana Serjan è una Tosca dall’andamento ondivago, a volte sicura, altre mostra una limitata presenza scenica, è mancato l’incedere elegante della diva, ma acquista vigore lungo il corso degli atti per diventare più autorevole nel Finale. 
Tutto sommato di buon livello il resto della compagnia. Pubblico numerosissimo ed entusiasta.

  

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